di annalisa Lo Monaco

 

Anche se apparentemente non c’è nessuna correlazione, è sorprendente scoprire che gli antichi romani chiamavano nocticulae, “cose che brillano di notte”, una categorie di prostitute un po’ particolare. L’eredità linguistica non è solo etimologica quindi, ma legata anche ad associazioni di idee che, chissà perché, attraversano i secoli.

Nella Roma antica (e non solo) la prostituzione era un’attività fiorente e per nulla scandalosa: si stima che nel I secolo d.C. le donne dedite al mestiere più antico del mondo, regolarmente registrate e soggette al pagamento delle tasse, fossero 32.000. Un numero certamente inferiore alla realtà, vista la sicura presenza di molte altre che esercitavano “liberamente”, per eludere il fisco.

La maggioranza delle prostitute erano schiave o liberte, anche se non mancavano donne libere ridotte in miserie (magari dalla vedovanza), o aristocratiche, chiamate famosae, che esercitavano per voglia di trasgressione o solo per il gusto di destare scandalo, anche se solitamente indossavano una maschera per non essere riconosciute e certo non erano alla portata di tutti. Le cortigiane di alta classe, un po’ sullo stesso piano delle etere greche, erano invece chiamate delicatae.

Di solito, chi andava in cerca di sesso a pagamento (cosa del tutto normale, auspicata da personaggi come Catone il Censore e Cicerone, per salvaguardare la virtù delle donne di nascita libera) senza potersi permettere le tariffe delle delicatae, frequentava i numerosi bordelli (o lupanari), le terme e le taverne, dove, attraverso la mediazione dei lenoni, si potevano trovare le prostitute regolarmente registrate.

Oppure si poteva andare in cerca delle postribulae, le più povere tra le tante donne costrette a vendersi per denaro, quelle che non risultano nei registri tenuti nell’ufficio del magistrato edile. Tra loro, le ambulatae appartenevano a una delle categorie più infime, donne che esercitavano il mestiere per strada, aspettando i clienti nei pressi dei più costosi bordelli, vicino ai circhi e alle arene dei gladiatori. Per la misera cifra di due denari quelle donne soddisfacevano velocemente i clienti, tra uno spettacolo e l’altro.

Peggio di loro, nella considerazione sociale, c’erano solo le bustuariae, chiamate anche nocticulae, che esercitavano di notte all’interno dei cimiteri. Il lato oscuro della prostituzione, esaltato anche da un certo aspetto fisico che oggi definiremmo dark: incarnato pallido e volto senza espressione, sguardo gelido quasi da defunta e movimenti del corpo lentissimi.

Solitamente il primo approccio con i clienti avveniva durante un funerale, visto che la maggioranza delle bustuariae di giorno lavorava come prefica e piangeva per morti sconosciuti.

Secondo il poeta romano Marziale erano i vedovi recenti ad essere attratti dalle bustuariae, per quel loro modo lugubre e lamentoso di gemere durante l’amplesso, disposte ad assecondare fantasie macabre, come fingere di essere un cadavere o consumare il rapporto sulla terra appena scavata di una tomba.

Le bustuariae sono citate, oltre che da Marziale, anche da Giovenale e persino da Catullo, il poeta romano dell’amore per eccellenza.

Di questa forma di prostituzione un po’ al limite (esercitata non solo a Roma ma in tutto l’impero, e comunque anche in tempi più moderni) rimane traccia nel ricordo di una bustuaria di nome Licia, frequentata anche da personaggi di alto rango, e nella descrizione di Nuctina, un personaggio probabilmente leggendario. Se invece è veramente esistita, certo Nuctina doveva essere la più inquietante tra tutte le nucticolae: dai lineamenti perfetti, nonostante il colore livido della pelle, chiedeva per i suoi servizi due monete d’oro. Un prezzo alto, che molti uomini erano disposti a pagare pur di possederla. O forse per guardarla, dopo il sesso, quando la donna si metteva a dormire in una tomba che portava il suo nome e con le due monete d’oro sugli occhi (l’obolo per Caronte, traghettatore dei morti).

Amore e morte, un legame che appare inscindibile, soprattutto quando la realtà si fa oscura e senza controllo. In periodi di crisi, come durante l’epidemia di peste della metà del ‘300, oppure ancora più di recente, durante la seconda guerra mondiale, l’urgenza di esorcizzare la morte praticando sesso nei cimiteri è testimoniata da numerose fonti.

Alla fin fine, passano i secoli, cambiano i costumi e la lingua si evolve, ma si ritorna sempre allo stesso punto di partenza: una varia umanità alle prese con la paura della morte.

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