Il mondo si è fermato a Gaza
di Stefano Galieni
Quanto sta avvenendo in questi giorni nelle zone più disperate della Striscia di Gaza, in campi profughi realizzati nel 1948 e in cui, né i Paesi arabi vicini, né l’occupante israeliano, ma nemmeno le Nazioni Unite hanno mai voluto provvedere a trovare soluzioni dignitose, è semplicemente mostruoso. Il bilancio dei bombardamento in 24 ore parla di almeno 200 vittime, tutti civili, al 50% minorenni, come in tutta Gaza. Si sommano alle altre e agli altri risultati della “reazione” agli attacchi del 7 ottobre, per almeno 21 mila morti, ma mentre scriviamo la cifra sale. Per Israele la guerra (il genocidio), continua come se nulla fosse: si bombardano ospedali, sedi della Mezzaluna Rossa, dove si concentrano non miliziani di Hamas ma gli aiuti umanitari, si bombarda a tappeto anche con ordigni pesanti perché nulla debba rimanere in piedi. Inutile cercare paragoni col passato, le strategie di guerra si adeguano ai mezzi sofisticati di cui si dispone, al terreno in cui si combatte, agli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere, con l’unico risultato di aumentare l’elenco di morti, di persone ferite, di famiglie al freddo e alla fame, senza accesso ad alcun sostegno sanitario, alla semplice risorsa idrica. Difficile comprendere se l’obiettivo di questo crimine internazionale per cui dovrebbero finire alla sbarra non solo i ministri dell’intero governo di Tel Aviv ma, con le stesse responsabilità, i complici USA e UE, non solo silenti ma sostenitori di fatto degli eccidi, sia la pulizia etnica totale, una nuova “Nakba” o il “semplice” annientamento di qualsiasi forma di resistenza. Fatto sta che le feste di Natale continuano a colare sangue di innocenti, fatto sta che per ogni persona che cade in questo mattatoio, il bisogno di vendetta e di giustizia – i confini saranno sempre più labili – continuerà a crescere, riguarderà generazioni e non avrà confini. Chiudiamo l’anno di un pianeta in cui la guerra sembra essere la regola e non l’eccezione, con la tremenda certezza che lo strazio non finirà domani, che anche chi sommessamente prova a pronunciare parole di pace finisce nel tritacarne mediatico di coloro che disumanizzano l’altro e che non ammettono cedimenti, non si fermano e non si fermeranno, in ogni angolo del mondo dove qualcuno spara, bombarda, incarcera, uccide, per difendere il proprio potere. Volendo centrare lo sguardo su quanto accade nel Vicino Oriente, noi di Transform, soprattutto in questi ultimi mesi ma anche in passato, abbiamo provato a scrivere, riflettere, raccogliere voci, cercare di comprendere le tante questioni che rendono insolubile il conflitto in quelle terre. Abbiamo cercato di farlo – non sempre magari ci siamo riuscite/i – mettendo da parte il nostro punto di vista sì marxista ma anche occidentale e viziato da colonialismo difficile da sradicare. Partiamo dall’assunto che, soprattutto per chi intende cambiare il mondo qui ed ora, sia necessario sviluppare una conoscenza delle interconnessioni nel pianeta, più adeguato ai tempi. Il nostro è un punto di vista mai equidistante: c’è un occupante e un occupato, una Resistenza e chi vuole annientarla, con ogni mezzo. Ma non siamo campisti, cerchiamo anche di comprendere le contraddizioni, la complessità politica di un’area geografica e culturale che è stata culla di civiltà. Non siamo stati alla ricerca delle sfumature ma dei concetti adeguati per parlare dell’ennesimo conflitto parte integrante della guerra mondiale a pezzi che si sta combattendo e che, in questo caso, si va estendendo a macchia d’olio coinvolgendo, direttamente o indirettamente potenze regionali e mondiali, consapevoli di essere di fronte ad un precipizio di fronte al quale il silenzio è complicità. A guidarci, sarà un nostro limite, non sono soltanto i tentativi di analisi più o meno adatti, il bisogno di intuire e di prendere posizione concreta nella consapevolezza che la logica del genocidio attraversa la storia dell’umanità da centinaia d’anni ed ogni volta riesce a sorprenderci per le sue nuove, oscene, modalità con cui si realizza. A guidarci è soprattutto – ed è un elemento politico – lo sguardo di chi paga le conseguenze di scelte disumane, i volti soprattutto delle persone più vulnerabili, le abitazioni rase al suolo dalla potenza bellica per cui l’UE ad esempio non considera praticabili alcuni vincoli restrittivi. Quei volti, quelle case, quelle urla, sono divenute la storia di questo anno terribile, sono il punto di non ritorno di cui dobbiamo essere consapevoli. È per tale ragione che, a fine anno, vi lasciamo un numero forse privo prospettive, che rende più difficile farsi gli auguri di buon anno. Solo un saluto carico di dolore e di pensieri cupi da cui forse, se si è in tante/i e se non si vuole restare in silenzio, si potrà ripartire. Dalla parte della pace, dalla parte di chi un tempo, occupando ruoli fondamentali nelle istituzioni, era in grado di dire “Svuotare gli arsenali, riempire i granai”.
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