PERUGIA - E’ una linea sterrata larga 28–40 metri e lunga 700 km, una linea che taglia diritto, ignorando l’orografia. Stiamo parlando del metanodotto gigante (superpipeline) che due multinazionali, SNAM rete gas (ENI) e British Gas, vogliono realizzare sul crinale dell’Appennino sbancando, perforando, sventrando foreste, corsi d’acqua e cime rocciose per centinaia di chilometri.

E’ un impianto industriale gigantesco, che si vuol disporre nell’area più incontaminata del paese, per motivi che riguardano solo chi lo propone. Il fantomatico ”interesse nazionale” che il ministero ha con tanta solerzia concesso all’opera al fine di velocizzare l’iter è infatti a dir poco discutibile: da un lato non esiste un piano energetico nazionale e quindi in assenza di punti di riferimento ogni azione diviene arbitraria e probabilmente approssimativa, dall’altro l’Italia di gas ne ha perfino in eccesso, da vendere. E infatti lo vende, essendone il maggiore esportatore europeo.

Il prezzo da pagare per questo super mostro infatti lo sosterrebbe il paese: una devastazione senza pari sull’Appennino, superiore a qualsiasi immaginazione. Oltre all’impatto del tracciato in sé, in certe aree dove le pendenze sono accentuate le piste di servizio per portare i giganteschi macchinari sul posto devasterebbero
irrimediabilmente interi versanti. I corsi d’acqua attraversati verrebbero sconvolti, con l’estinzione locale di alcune specie (come la lontra, ed una specie ittica tipica delle acque fredde presente in alcuni corsi d’acqua interessati come “relitto glaciale”).

I servizi tecnici della Regione Umbria hanno messo nero su bianco una valutazione impietosa, dove si parla di “danni estesi, recuperabili solo in secoli”, e ancora di “danni irreversibili al territorio e agli ecosistemi” e anche di danni tali da risultare “pregiudizievoli dell’immagine stessa della Regione”.

Ma non basta: il tracciato proposto inanella con precisione, uno ad uno, tutti gli epicentri dei terremoti più devastanti degli ultimi venticinque anni: a partire dall’Aquila, passando per Norcia, Visso, Colfiorito. Si tratta di zone dove esistono faglie attive, in grado di produrre il dislocamento del piano di campagna (la terra che si spacca e si sposta), come è accaduto nel terremoto dell’Aquila. Non esistono al mondo manufatti che possano resistere ad un simile trattamento: persino le montagne si spaccano.

Ma la SNAM afferma ed insiste che i suoi gasdotti sono sperimentati, testati per resistere a tutto. Quindi noi dovremmo essere le loro cavie, nella speranza che certe cose siano effettivamente “statisticamente improbabili”. Invece, da quello che succede, nel mondo e in Italia, si evince che basta un piccolo smottamento a far esplodere un gasdotto (Tarsia 2010, ad esempio). Posto che serva alla nazione (e va dimostrato), una simile opera va fatta semmai dove non vi è rischio sismico, non vi è rischio idrogeologico, non vi sono Parchi Nazionali, Riserve Naturali, Siti di Interesse Comunitario, Zone di Protezione Speciale, Parchi e Riserve Regionali. Insomma, le montagne dell’Appennino sono il posto meno adatto.

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