da Invictus.

Nello sport, la medaglia rappresenta il simbolo della vittoria. In quel disco di metallo, da appendere al collo, s’incarnano il sacrificio, la dedizione, la passione, il talento, i valori, la forza dell’atleta. Questa è la storia di una medaglia.
Manlio Gelsomini nasce a Roma il 9 novembre del 1907. A Manlio piace correre. Tutti i giorni, tutto vestito di bianco, si allena sulla pista d’atletica dello Stadio della Farnesina, a due passi dall'Olimpico. Prova e riprova la partenza. È il suo tallone d’Achille. Manlio corre veloce, anzi velocissimo. Corre per l’AS Roma. Nel 1928, è campione nazionale universitario e campione juniores. Quei 100 metri li corre in 11 secondi netti. Manlio non è solo un atleta, è anche uno studente. È iscritto alla facoltà di medicina. Manlio non è solo un atleta e uno studente, è anche un fascista. A 14 anni, nel 1921, si iscrive al partito fascista. Negli anni universitari, è dirigente del GUF, universitari fascisti. Manlio ci crede, partecipa alla vita politica. Nel 1928, con la squadra di atletica è a Parigi, in Francia, per i mondiali universitari. A Saint-Ouen, si gioca la partita di calcio tra le rappresentative universitarie di Italia e Cecoslovacchia. Sulle tribune, ci sono diversi esuli. Sono scappati dalla patria. Non amano il fascismo, non amano quell'Italia. Gli esuli cominciano a fischiare gli azzurri, ad insultarli. Per loro erano l’immagine dell’Italia fascista e di Mussolini. Sugli spalti, c’è anche Manlio. Da buon patriota, è lì a tifare. Lui quell'Italia la ama. Lui ci crede. Lui è un fascista della prima ora. Manlio, quei fischi e quegli insulti, non li tollera. Viene alle mani con quegli “schifosi” esuli anti patriottici. Picchia duro, così duro che la sua “impresa” gli vale l’apprezzamento del regime. Al ritorno in Italia, la squadra d’atletica viene accolta in pompa magna. I risultati sportivi sono stati modesti, ma quelli politici esaltanti. Manlio è premiato per quella sua azione patriottica. È incensato addirittura da Augusto Turati, segretario nazionale del partito fascista. Gelsomini è l’archetipo del fiero atleta fascista, forte e veloce in pista, ma soprattutto fervente, appassionato fuori dalla competizione sportiva.
Il 1930, rappresenta l’anno migliore dell’atleta Gelsomini. Indossa la maglia della nazionale B. Gareggia a Zurigo sulla leggendaria pista del Letzigrund Stadion. Su quella pista, spettatrice di tanti record, vince. Manlio è un grande atleta. La velocità non gli basta. Si cimenta anche nel rugby. Gioca valorosamente alcuni incontri tra le fila della Lazio. Ma il suo amore per il rugby, dura poco. La federazione gli vieta di praticare la palla ovale. Potrebbe infortunarsi e mandare al diavolo la sua partecipazione alle olimpiadi del 1932 di Los Angeles.
Manlio a quelle olimpiadi non ci andrà. Il velocista, tanto caro al fascismo, decide d’intraprendere un’altra strada. Il suo futuro non è lo sport. Il 15 luglio del 1932 si laurea in medicina. Svolge il servizio di leva come ufficiale medico, grado capitano, nel 79°. Battaglione Camicie Nere.
È un medico, altruista, generoso, valido. Nelle stanze ospedaliere fa amicizia con un giovane tirocinante: Giorgio Piperno. È un’amicizia “difficile”. Piperno è ebreo. Probabilmente, quell'amicizia “scomoda” al regime, mette in discussione anche le granitiche convinzioni politiche di Manlio. Nel 1941, la “Guida Monaci” lo depenna dall'elenco dei medici. Nel 1942 viene sospeso dal grado d’ufficiale. I fascisti, il medico amico degli ebrei, non volevano e potevano tollerarlo. Ciò nonostante, nel 1943, Gelsomini viene richiamato alle armi. Viene richiamato nel 79°Battaglione Camicie Nere. All'indomani dell’armistizio dell’8 settembre, Manlio ormai non è più il fascista appassionato che dava cazzotti agli esuli, non è più il velocista osannato dal regime, non è più una camicia nera.
Si nasconde sui monti viterbesi e aderisce alla resistenza. Diventa Ruggero Fiamma. È il leader delle formazioni partigiane che agiscono tra il Soratte, il lago di Bracciano e il Cimino. Il gruppo di resistenza di “Fiamma” opera sabotaggi, diversi attacchi contro colonne militari naziste, passa informazioni agli “Alleati”.
Roma, 13 gennaio 1944. Tra piazza del Popolo e piazzale Flaminio, le SS arrestano Manlio Gelsomini, alias Ruggero Fiamma. Era stato tradito da un certo Pistolini. Pistolini era un doppiogiochista. Era assoldato dalle SS. Si fingeva amico dei partigiani, in realtà li “vendeva” ai nazisti.
Manlio fu portato a via Tasso. Fu incarcerato nella cella numero 5. Venne torturato, picchiato e seviziato. In quella cella scriveva un diario. Su quelle pagine scrisse: «Non sono nato per una vita facile io. Amo l’imprevisto e nell'assurdo trovo spesso la ragione filosofica del mio pensiero. Mi piace fare il medico perché trovo nella mia professione degli imprevisti e delle difficoltà che devo sempre risolvere rapidamente e brillantemente per la mia vita: al di là dell’orizzonte noto. Vado verso l’ignoto con la sete di voler sapere. Rischio il tutto per tutto». Gelsomini, non era fatto per una vita facile. Ruggero Fiamma era nato per il rischio. Il 24 marzo del 1944, dopo 76 giorni di prigionia, di umiliazioni e soprusi, Ruggero Fiamma fu trasferito alle Fosse Ardeatine e lì fu ucciso con un colpo alla testa. Con lui, quel giorno, trovarono la morte altre 334 persone.
Questa è la storia di Manlio Gelsomini, l’uomo che correva i 100 metri in 11 secondi netti. Questa è la storia del velocista che ammirava il fascismo e vinceva medaglie. È la storia di un atleta amato e premiato dal fascismo. È la storia del medico amico di un ebreo. Questa è la storia del partigiano Ruggero Fiamma. Questa è la storia di un eroe a cui è stata attribuita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria:

«Fu tra i primi ad organizzare un movimento di resistenza armata nella zona dell'alto Lazio. Instancabile nella cospirazione e nella lotta partigiana; con fermezza d'animo, con l'ascendente personale e il generoso sprezzo della vita, durante i giorni del terrore nazifascista, fu di luminoso esempio ai propri dipendenti, donando fiducia ai timorosi e accrescendo audacia ai forti. Denunciato da una spia, fu arrestato e sottoposto per 76 giorni ad inumane, indicibili torture, serbando il più assoluto silenzio circa l'organizzazione di cui faceva parte. Barbaramente trucidato insieme agli altri martiri alle Fosse Ardeatine, donava, sublime olocausto, la sua vita fiorente per la salvezza dei compagni di fede e per il riscatto della Patria oppressa»
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