LIMITI ALLA CRESCITA. SALVARE L’AMBIENTE E NOI STESSI
di Giuseppe Cassini
Due rompicapo
La presa di coscienza della crisi ambientale planetaria si può datare: 1972, anno in cui si tiene a Stoccolma una prima conferenza sull’ambiente e il Club di Roma pubblica l’ormai storico Rapporto “Limits to Growth”. A riprova di quanto scarsa fosse allora la cultura ecologica, Mondadori lo tradusse sotto il titolo “Limiti allo sviluppo”, e solo in seguito lo ristampò correttamente come “Limiti alla crescita”. Una bella differenza!
All’inizio del Rapporto si presentano al lettore due indovinelli, due rompicapo.
Il primo. Si narra che nell’antica Persia un astuto cortigiano presentasse al suo re una scacchiera così bella che il re volle acquistarla. Il cortigiano chiese in cambio solo del grano: un chicco per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza e così via raddoppiando. Il re acconsentì felice di cavarsela con così poco, ma resterà di sasso man mano che si riempiranno le caselle. Domanda: quanti chicchi di grano dovrà versare sull’ultima casella, la 64°?
Il secondo. Supponi di avere un laghetto in cui galleggia una ninfea. Supponi che la ninfea raddoppi di larghezza ogni giorno, fino al punto di coprire l’intera superficie del laghetto in 30 giorni se non intervieni tu a interrompere il suo ritmo di espansione. Al 29° giorno metà della superficie dell’acqua sarà ricoperta di ninfee. Domanda: quanti giorni ancora ci vorranno prima che l’intero laghetto sia stato soffocato dalle ninfee?
Le risposte (per chi non le conosce già) verranno svelate al termine di questo articolo. Per ora basta riflettere sui rischi impliciti in qualsiasi crescita esponenziale.
Breve cenno filosofico
Le filosofie e le religioni orientali mostrano in genere maggior rispetto per la natura di quel che traspare dalle tre religioni del Libro (ebraismo, cristianesimo, islam). Nella Bibbia, infatti, un Dio trascendente ordina agli uomini appena creati: “Crescete e moltiplicatevi, riempite la terra e assoggettatela, dominate sui pesci, sugli uccelli e su ogni essere vivente” (Genesi, I, 28). Il dominio dell’uomo sulla natura è dunque assoluto, certificato dall’Onnipotente. Solo un precetto così radicale può spiegare l’avversione dei rabbini olandesi contro il “Deus sive Natura” di Spinoza e l’odio degli inquisitori pontifici contro la geniale visione astrale di Giordano Bruno.
Più aperta e sensibile al rapporto con il Cosmo era la visione dei Greci. La loro mitologia politeista (tra le dee non manca Gaia, la Terra) tramonterà soltanto quando verrà scalzata dal Cristianesimo trionfante. Ascoltando il coro dell’Antigone di Sofocle, si avverte un sussulto di empatia verso la Madre Terra sfruttata dall’uomo all’eccesso:
“Molte forze terribili ha la vita ma nulla è più tremendo dell’uomo.
Con aratri sovvertitori affatica ogni anno la terra
e la smuove premendola con gli zoccoli dei cavalli.
L’uomo insidia la famiglia aerea degli uccelli
e il popolo del mare gettando con astuzia le sue reti.
Con ingegno non comune ora si volge al bene, ora al male.”
Ora al bene, ora al male. Negli ultimi due secoli l’umanità si è dedicata “con ingegno non comune” sia al bene sia al male, senza rendersi conto dei disastri ambientali che stava provocando. Soltanto di recente è emersa una presa di coscienza che ha generato un’etica ecologica simile a una nuova religiosità. Si fa strada tra i giovani una vera metanoia, una conversione radicale del nostro modo di pensare, vedere, agire. Con un suo profeta: James Lovelock, lo scienziato inglese che nel 1979 battezzò “Gaia” il nostro pianeta, visto come un essere vivente i cui componenti – organici e inorganici – interagiscono tra loro per formare un sistema che si autoregola… almeno finché non interviene l’essere più potente di tutti, l’uomo, a sregolarlo.
Un termometro sregolato
Per milioni d’anni la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è rimasta stabile a 275 ppm (parti per milione). A causa del boom industriale e demografico, in meno di due secoli è aumentata fino a oltrepassare il fatidico tetto di 400 ppm. Di pari passo è aumentata la concentrazione di metano nell’atmosfera (da 0,7 a 1,7 ppm). Ne è seguito un balzo all’insù diquasi due gradi della temperatura media del pianeta, che era rimasta costante per millenni attorno ai 15°.
Oggi, oltre la metà del genere umano vive addensato in agglomerati urbani e la crosta terrestre è cosparsa di manufatti costosi da proteggere contro la furia vendicativa della natura. Ancora un paio di gradi e il livello del mare salirà visibilmente. Nel frattempo si fanno più violenti i fenomeni meteorologici, ribaltando in negativo il motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte). In conclusione, la zattera dell’umanità si sta inoltrando verso l’ignoto, carica di naufraghi come la “Zattera della Medusa”.
Come contrastare allora il riscaldamento globale? Come aggiustare il “termostato” rotto senza mutare stili di vita? Ricorrendo a tecnologie avveniristiche, ecco il vero sogno dell’homo faber. In America le hanno pensate tutte:
fertilizzare gli oceani con miliardi di palline di ferro per accrescere l’assorbimento di anidride carbonica dall’atmosfera;
creare foreste di alberi artificiali (in pratica, pannelli contenenti idrossido di sodio capaci di assorbire trecento volte più CO2 di un albero);
spruzzare acqua salata nebulizzata per formare nuvole artificiali a protezione del pianeta dai raggi solari;
sparare anidride solforica nella stratosfera (pensando all’eruzione del Pinatubo, che nel 1991 raffreddò di mezzo grado la terra per un paio d’anni);
montare specchi megagalattici nello spazio per deflettere i raggi solari verso l’alto.
Ma in fondo, l’unico reattore che funziona come Dio comanda è il sole. Appartiene a tutti, riappare fedelmente ogni mattino, fornisce calore, vento, onde quanto bastano a produrre energia pulita all’infinito. Ogni anno fa “piovere” sulla Terra duemila volte l’energia prodotta dall’insieme dei combustibili fossili. Un campo di pannelli solari di 6.000 kmq nel Sahara (come il lago Nasser ad Assuan) genererebbe l’energia di tutto il petrolio del Medio Oriente. «Oggi potremmo garantire in modo duraturo a ogni terrestre un benessere da miliardari, usando meno dell’1% dell’energia che ci arriva ogni giorno dal nostro reattore nucleare cosmico, il Sole, distante 150 milioni di km, quindi del tutto sicuro in quanto trattiene le scorie al suo interno» scriveva Richard Buckminster Fuller, architetto visionario, sodale di Einstein nel ritenere l’era atomica un preludio di “catastrofi infinite”.
Nel 1988 eravamo riuniti a Ginevra a mettere a battesimo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), eletta schiera di scienziati incaricati dai governi di studiare il climate change. Cambi climatici? Cos’è, una bufala esoterica? Non fu facile convincere i governi – anche i più illuminati – a finanziare questo IPCC. Noi ponevamo agli scienziati di quel panel una semplice domanda: è mai possibile che le emissioni di gas-serra prodotti dalle attività umane modifichino il clima e provochino un riscaldamento planetario?
La prima risposta ci arrivò nel 1990: “Forse sì, forse no, ma nell’incertezza sarebbe saggio diminuire le emissioni”. Ormai, in un crescendo allarmante, siamo giunti al sesto Rapporto. Rassegnati all’incombente scenario, i governi si dedicano piuttosto a come adattare l’umanità all’inevitabile. Per svegliare gli scettici si è iniziato a calcolare quanti miliardi di dollari costano i danni provocati dal clima ogni anno.
Il consumismo
Nell’epica sfida tra capitalismo e comunismo chi ha vinto in realtà è il consumismo. Un curioso sociologo anglo-tedesco è riuscito nell’impresa di calcolare quanti oggetti si trovano nelle abitazioni europee, cominciando dalla Germania: ha contato una media di diecimila oggetti per casa (v. Frank Trentmann, “L’impero delle cose”, Einaudi, 2017). D’altra parte, lo si nota anche visivamente ogni volta che un’inondazione costringe gli alluvionati a liberare cantine e appartamenti allagati. Nell’Europa del Seicento le case dei popolani non contenevano molto più che una decina di oggetti, e tutti riciclabili.
La produzione di miliardi di oggetti di dubbia utilità (e in genere non riciclabili) lascia dietro sé uno strascico di seri danni ambientali. E anche sanitari. Negli Stati Uniti l’acquisto compulsivo è un disturbo serio che colpisce circa un decimo degli americani, soggiogati dall’abilità dei persuasori occulti e dei maghi della pubblicità. Esso può provocare un grave disturbo psichico, l’accumulo compulsivo, riconosciuto dall’Associazione Psichiatrica Americana con il nome di hoarding disorder.
Per non parlare degli effetti dovuti all’alimentazione: anzitutto l’obesità (e quindi il diabete) in aumento dovunque nel mondo, soprattutto tra i poveri. Oggi è obeso un terzo dei nordamericani e sovrappeso un altro terzo (nel 1980 era obeso solo uno su sette). Qual è la prima cosa che colpisce uno straniero sbarcando in America? Il sedere. Grandi glutei, di uomini, donne, bambini. I dietologi puntano il dito sul junk food. E nel cibo spazzatura, tra patatine e bevande gassate, si staglia il Big Mac: panino a doppio strato di carne, formaggio rigenerato, fette di pomodoro insipido, salse varie e una foglia di insalata – pietosa foglia di fico per nascondere quante calorie contiene il Big Mac (oltre 500). Consumare e ingrassare formano un binomio inscindibile.
Ancora nel primo Novecento si producevano manufatti concepiti per durare nel tempo. Questo principio non ha resistito alla potenza del consumismo. Provvedono i persuasori occulti – gli hidden persuaders denunciati da Vance Packard già nel 1957 – a sfruttare con messaggi subliminali le debolezze dei consumatori. Ecco le case automobilistiche lanciare un modello nuovo ogni anno per indurre il cliente a cambiare auto appena rimborsato il prestito con cui aveva comprato il modello precedente. Ecco l’elettrodomestico programmato per durare un certo tempo e poi rompersi in modo da rendere non conveniente ripararlo. È l’intero mercato a riempirsi d’accessori in cui il fabbricante ha inserito un pezzo fragile per ridurne il ciclo di vita. È il trionfo dell’usa-e-getta. Ok, ma gettare dove?
La sciagura della plastica (e non solo)
Per curiosa coincidenza, nella prima metà del Novecento furono inventati tre prodotti industriali (asbesto, CFC e plastica) che hanno giovato grandemente all’umanità prima che la scienza si accorgesse di quali danni stavano causando.
In ordine di tempo, anzitutto l’amianto (o asbesto). È’ un minerale naturale, di cui si scoprirono le notevoli proprietà ignifughe se impastato con il cemento. Battezzato con il ben augurante nome di Eternit, si è poi notato che le microfibre rilasciate dal materiale invecchiato erano cancerogene; ma la produzione ha resistito abbastanza a lungo da provocare tumori polmonari in milioni di persone, prima che i governi costringessero i produttori (sordi d’orecchio) a chiudere le fabbriche.
Poi i CFC (clorofluorocarburi), detti anche freon: si tratta di potenti gas refrigeranti, dalla molecola molto stabile, non tossici né infiammabili. Una meraviglia dell’industria chimica degli anni Trenta. Ma negli anni Settanta ci si accorse che le molecole dei CFC erano così mirabilmente stabili da risalire – se liberate nell’atmosfera – fino a colpire e assottigliare lo strato di ozono che a venti chilometri sopra di noi ci protegge dai raggi ultravioletti.
Infine le plastiche. Chi non ricorda quella scena de “Il Laureato” in cui il giovane Dustin Hoffman, alla festa di laurea, viene interpellato da un amico di suo padre? “Voglio dirti solo una parola, ragazzo”. “Sì, signore”. “Mi ascolti?”. “Certo, signore”. “Plastica!”. “Temo di non aver capito, signore”. “Plastica, Ben! Il futuro è nella plastica”. Il film è del 1967. Pochi immaginavano allora che un prodotto così geniale – leggero, duttile, duraturo e poco caro – potesse invadere la terra e gli oceani, dai quali dipende la vita di parte dell’umanità. Ogni anno si producono 400 milioni di tonnellate di plastiche, con la previsione di triplicare la produzione entro il 2060 (stime Ocse). Nel Pacifico un vortice di correnti ha spinto miliardi di rifiuti di plastica galleggianti – dalle classiche bottiglie alle reti da pesca strappate (ormai tutte in nylon) – a formare gigantesche isole visibili perfino dallo spazio. Senza parlare delle microplastiche, che minacciano la stessa nostra catena alimentare.
Neologismi e ipocrisia
Le minacce all’ecosistema hanno creato due neologismi. Il Nobel per la chimica Paul Crutzen ne ha coniato uno – antropocene – per significare che l’umanità è passata dall’olocene a un’era in cui l’uomo è diventato “forza geofisica” capace di plasmare la natura fino a rischiare l’auto-estinzione. Sarebbe la sesta estinzione, dopo le cinque che si sono succedute prima della nascita dell’homo sapiens.
L’altro neologismo è ecocidio, ossia il massacro della madre Terra che ci fa vivere. Lo ha ripetuto fino alla morte il grande psicologo James Hillman: «Oggi l’uomo consuma minerali, piante, animali a uso esclusivo della sua specie; anzi, di pochi individui della sua specie. Prima di definirlo suicidio di massa, guardiamoci allo specchio per riconoscere l’omicidio. Gli alti standard di vita impongono l’omicidio continuo per sostenersi».
“Sostenersi” scriveva Hillman. Nel 1987 un’apposita Commissione mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, guidata dalla premier norvegese Gro Brundtland, pubblicò uno storico Rapporto (Our Common Future) che introdusse il concetto di “sviluppo sostenibile”: cioè uno sviluppo che soddisfi le esigenze della generazione attuale senza mettere a rischio quelle future. Un concetto innovativo fondamentale, quello della “sostenibilità”, tanto che se ne è impadronito il mondo della pubblicità. Qualsiasi prodotto viene sbandierato come “sostenibile” anche se non lo è affatto. Forse la signora Brundtland potrebbe rivendicare il copyright del termine e fare giustizia di tanta pubblicità ingannevole.
Quando ancora la scienza non aveva avvertito i pericoli del riscaldamento globale, fu un geniale poeta latino a descrivere il fenomeno con impressionante lucidità. Così immagina Ovidio nelle Metamorfosi il lamento della Terra, messa a rischio da Fetonte alla guida dissennata del carro che suo padre, il Sole, gli aveva incoscientemente affidato:
“Allora la madre Terra, circondata dal mare,
fra le onde e le fonti consunte che tentavano
di rintanarsi dove potevano nelle sue viscere,
riarsa sollevò a fatica la testa fino al collo,
si portò una mano alla fronte e con un gran sussulto
che fece tremare ogni cosa si assestò più in basso
da dove era solita stare e con voce roca si rivolse a Zeus:
‘È questo il mio premio? Così ricompensi la fertilità
e i miei servizi, dopo che sopporto le ferite a me inferte
da aratri e rastrelli, e per l’intero anno mi affatico?’.
Conclusione
Ecco la soluzione dei due indovinelli proposti all’inizio.
La 1° domanda era: quanti chicchi di grano dovrà versare sull’ultima casella, la 64° della scacchiera? Risposta: 18.446.744.073.709.551.615 chicchi (in peso pari a 1.800.000 milioni di tonnellate: calcolando che ogni anno il mondo produce circa 600 milioni di tonnellate di grano, occorrerebbero 3.000 anni per sdebitarsi).
La 2° domanda era: quanti giorni ancora ci vorranno prima che l’intero laghetto sia stato soffocato dalle ninfee? Risposta: un giorno solo.
Ecco, questi sono i rischi della crescita esponenziale. Oggi siamo arrivati all’ultimo giorno utile. Si può continuare così? Sarebbe fuori luogo rispondere con la memorabile battuta di Woody Allen: “Che hanno fatto i posteri per noi da doverci preoccupare per loro?”. Non sappiamo se i fenomeni climatici anomali degli ultimi anni si estremizzeranno in misura esponenziale. Quod Deus avertat! Ma ormai siamo avvisati: un ovvio principio di precauzione ci impone di ingranare la retromarcia, a costo di sacrifici, ed estrarre dall’atmosfera più gas-serra di quanti ne emettiamo.
Fonte: centroriformastato.it
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