di Christian Cinti

Si dice che essere genitori sia forse il mestiere più difficile al mondo. Ma anche essere figli ha le sue complicazioni. Ruoli stupendi ma complicati, ancora di più se le storie che si incrociano devono fare i conti con qualcosa che non torna. «L’abbandono non ti abbandona», dice Luisa Di Fiore, figlia adottiva e presidente di una associazione (Figli Adottivi e Genitori Naturali, appunto) che dentro al difficile equilibrio tra origini e identità, passato e presente ci sta mettendo le mani. Perché «la ricerca delle proprie radici è un diritto».

Anzitutto parliamo della vostra associazione: quando nasce e con quali obiettivi.

«Figli Adottivi e Genitori Naturali è la prima organizzazione in Italia di figli adottivi adulti, fondata da John Campitelli, Monica Rossi e Luisa Di Fiore. L’associazione nasce in forma spontanea e non strutturata nel 2000. Sorta come naturale evoluzione della comunità virtuale dedicata a questo tema, l’associazione oggi è composta da oltre tremila membri sulla pagina Facebook ed è per questo che ravvisiamo la forte esigenza di strutturarci come associazione. Da qui la nostra richiesta d’iscrizione al registro della Regione Lazio. Sono diversi i fronti sui quali l’associazione è impegnata. Favorire la cooperazione con altri soggetti ed enti interessati a perseguire gli obiettivi associativi; sensibilizzazione sociale all’esigenza di conoscere le proprie origini e conseguenti azioni per richiedere la modifica della legge attuale. A proposito, l’associazione ha istituito il primo registro di figli adottivi e genitori biologici italiani (http://bit.ly/registrofaegn) e lanciato nel 2016 la campagna DNAdozione (http://www.dnadozione.it) per sfruttare la genealogia genetica come ulteriore strumento per risalire alle proprie origini biologiche. L’associazione si occupa inoltre di supportare operativamente le persone che vogliono avviare ricerche della propria famiglia biologica attraverso presentazioni di istanze ai tribunali, richiesta di certificati e altre procedure amministrative; di informare a quali percorsi terapeutici possono rivolgersi le persone richiedenti ed indirizzarle ai propri terapeuti volontari. Tra le varie attività che portiamo avanti c’è l’organizzazione di gruppi di autoaiuto tra gli interessati facenti parte della triade adottiva, ossia figli, genitori adottivi e biologici. Ma promuove anche espressioni artistiche (teatrali, musicali pittoriche) sul tema. Si occupa inoltre di far valere il diritto dei figli adottivi non riconosciuti alla nascita di poter conoscere le proprie origini: consci, di quello che rappresenta emotivamente e psicologicamente tutto questo, per la triade adottiva, riteniamo giusto che ci sia una legge che autorizzi ciò. Siamo, infine, in contatto con associazioni simili in altre parti del mondo (Grecia, Francia, Stati Uniti, Olanda, Spagna, Corea del sud e India)».

Per quella che è la tua esperienza, quando matura la consapevolezza di essere figli adottivi?

«A partire dalla conoscenza della propria condizione di figlio adottivo, la consapevolezza è un percorso o un malessere. Mi spiego meglio. Sempre secondo la mia esperienza, la consapevolezza di avere comunque due storie che compongono la tua vita è un percorso di scissione e ricongiunzione della propria identità, che va fatto con consapevolezza e lentezza. Quando invece si sceglie di essere solo parte di una delle due storie, e cioè quella che non si conosce, credo che rappresenti un malessere che si ha nella condizione attuale e ci si rifugia nell’immaginario».

Esiste un modo "migliore" per raccontare la sua storia ad un figlio adottivo?

«Non saprei, dipende da tanti fattori. La psicologia dice che bisogna dirlo da subito, io dico di dirlo ma senza insistere e non ricordarlo ad ogni occasione come un mantra. La mia esperienza, che non fa testo ma che voglio raccontare, è stata quella di non aver ricevuto nessuna informazione e a 18 anni sono stata io stessa a dirlo ad un’amica durante una discussione, quindi nel mio caso conoscenza e consapevolezza sono esplose insieme».

La ferita dell'abbandono si rimargina?

«No, mai. È come la dislessia: devi imparare a compensare e a riconoscerla nei tuoi comportamenti. L’abbandono non ti abbandona».

Il rapporto con le origini è spesso controverso. C'è chi ricerca le proprie radici e chi invece non ne vuole sentire parlare. Cosa ci puoi dire?

«Beh, restiamo sempre nell’ambito della consapevolezza. La ricerca deve essere prima di tutto un diritto sociale ed è per questo che ci battiamo da anni. C’è chi ricerca con consapevolezza, dopo aver compiuto, appunto, un percorso di consapevolezza. C’è invece chi cerca, vivendo in un immaginario e creandosi aspettative dalla ricerca al di sopra della realtà e della consapevolezza. E queste sono le situazioni che vanno maggiormente accompagnate. C’è chi non cerca, perché non ha raggiunto la consapevolezza delle sue due storie. E in ultimo, c’è chi non cerca per malessere, perché non riesce a liberarsi dai sensi di colpa verso i propri genitori adottivi (spesso si ha paura di essere abbandonati anche da loro). Ci tengo a dire che non sono una psicologa nè un’assistente sociale, ma solo una figlia adottiva che ha condiviso la propria esperienza con tantissime altre persone più grandi e più giovani, italiane e non, che vivono la stessa condizione. Se c’è qualcosa che posso aggiungere, allora consiglierei un libro che ritengo vada letto dalla triade adottiva: “La ferita primaria” di Nancy Verrier».

 

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