di Maria Pellegrini.

Nel mondo antico greco-romano gli animali e il loro comportamento sono stati costantemente oggetto di studio da parte dell’uomo, che vedeva riflessi in essi i propri difetti e le proprie qualità. Tale osservazione era tuttavia sempre rivolta all’animale vivo, minaccioso o rassicurante, domestico o selvatico, nel fitto dei boschi o fra le mura domestiche, nel mare, o nel cielo.

Nel V sec. a.C. per Aristotele studiare gli animali nel loro aspetto esteriore e nei loro comportamenti non significava conoscerli; per raggiungere un pieno dominio conoscitivo su di essi, secondo quel grande filosofo greco, implacabile talvolta fino alla crudeltà, bisognava studiarli anatomicamente, cioè ucciderli e sezionarli seguendo una procedura che variava a seconda della parte del corpo che si voleva studiare. Egli asserì che non c’era spazio per un sapere razionale e scientifico del mondo animale al di fuori dell’anatomia e della classificazione fondata su di essa; l’uomo doveva considerare con gelido distacco l’animale per renderlo oggetto della propria ricerca, tenendo conto del fatto che: «non v’è amicizia, né legame di giustizia verso le cose prive di anima».

A Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), autore dell’opera monumentale “Naturalis Historia” interessavano invece le qualità dell’animale (furbizia, agilità, malvagità, mitezza ecc), le abitudini, l’interazione con l’uomo, in sostanza quei vincoli di curiosità e spesso di simpatia che hanno legato l’uomo al mondo animale, come dimostra la tradizione favolistica greca e latina nelle quali l’animale non solo simboleggia i vizi e le qualità degli uomini, ma talvolta è protagonista di storie edificanti e comunque fantasiosamente moralistiche.

Aristotele compendiò il frutto delle sue ricerche in questo campo nella “Historia animalium”, e nelle due opere “De partibus animalium” e “De generatione animalium”, dedicate alla loro anatomia e fisiologia. Per lui l’animale è oggetto di ricerca, per Plinio è soggetto che interagisce con la vita dell’uomo, e spesso sembra provare - e in effetti prova - gli stessi sentimenti dell’uomo: amore, tristezza, gelosia, timore, allegria.

La zoologia pliniana è dunque molto lontana dal rigoroso ordinamento operato da Aristotele. Plinio suddivide gli animali in quattro gruppi: terrestri, acquatici, uccelli, insetti. Per i primi tre gruppi considera l’habitat (terra, acqua, aria); per gli insetti, invece, osserva che sono «animali dalle dimensioni straordinariamente ridotte, tanto che secondo alcuni autori, non respirano e sono addirittura privi di sangue». Spesso con bizzarra associazione e simpatica disinvoltura, Plinio riporta informazioni e notizie di ogni genere, dal luogo dove l’animale vive, al modo più adatto per assaporare la sua carne, da episodi storici a leggende mitologiche, da delicati racconti nei quali l’animale si mostra migliore dell’uomo, a episodi di crudeltà dell’uomo nei suoi confronti, dalle leggendarie metamorfosi dell’uomo in animale (e viceversa) Insomma, anche in questa sezione della sua vastissima opera, egli non si smentisce: prevale sempre il puntiglio di non tralasciare nessuna informazione suggerito dal desiderio di trasmettere ai posteri l’intero bagaglio delle conoscenze acquisite. “Iuvare mortalem”, essere di aiuto all’uomo, diventa così l’attitudine che più di ogni altra avvicina l’uomo agli dei. Un’altra convinzione di Plinio è che nella natura stessa possiamo trovare gli strumenti per migliorare la nostra vita e alleviare il dolore causato dalle malattie. Quasi compiacendosi d’un paradosso, egli sembra dir che la decadenza e la corruzione sono in agguato proprio nei periodi di pace e di benessere, per mancanza di quella tensione spirituale che si alimenta invece quando la nostra libertà, le nostre certezze o il nostro benessere corrono qualche pericolo. Il desiderio di ricchezza e il lusso hanno deteriorato i costumi e spinto i miseri uomini a compiere atti di violenza contro gli animali : si sono violate le profondità marine in cerca di conchiglie portatrici di perle nel chiuso del loro guscio, si sono catturati animali selvaggi per chiuderli nei serragli e farne spettacolo per il volgo, o mostrarle come bottino di guerra, o impiegarle in feroci combattimenti per il divertimento di folle imbestialite a loro volta da tali spettacoli disumani.

Nonostante la voracità di notizie e la disordinata varietà di argomenti, Plinio rispetta tuttavia alcune tendenze strutturali: la trattazione zoologica comincia sempre dall’animale più grande (l’elefante per i terrestri, le balene per i marini, gli struzzi per i volatili), per arrivare agli esemplari più piccoli; e, generalmente, l’interesse per gli animali selvaggi, esotici o meno conosciuti, è maggiore di quello per quelli domestici e delle nostre regioni.

Particolare attenzione è dedicata all’elefante. Ad esso si attribuivano doti eccezionali e qualità e sentimenti che lo avvicinano all’uomo: memoria, intelligenza, pudore, paura, desiderio di gloria. L’interesse per questo animale, di cui non è detto nulla di propriamente scientifico oltre alla ovvia considerazione della sua maestosa grandezza, e della durezza della pelle (la parola greca “pachidèrma” significa infatti “dalla pelle spessa”), si mostra piuttosto attraverso numerose storie nelle quali l’elefante manifesta amore per il padrone, senso di giustizia, rifiuto di infierire contro i suoi simili, clemenza nei confronti di animali meno forti di lui, protezione dei più piccoli o deboli del proprio branco, in contrapposizione alla crudeltà degli uomini che li cacciano per procurarsi le zanne di cui servirsi per scolpirvi le statue degli dei. «Una volta le immagini degli dei erano in legno - ricorda con rammarico Plinio - ora sono in avorio al pari spesso con numerosi, lussuosi, e superflui oggetti di uso comune. Così la cupidigia induce gli uomini a una vera strage di questi animali, pacifici - a meno che non vengano assaliti -, arrecando danni irreversibili all’equilibrio vitale ed ecologico di questa specie». In queste considerazioni Plinio rivela un’ansia ambientalista che precorre di secoli la nostra attuale consapevolezza dei criminali comportamenti che minacciano l’esistenza di intere specie animali e del nostro pianeta stesso.

Nel repertorio pliniano sfilano poi iene, pantere, leoni tigri, cammelli, giraffe, rinoceronti; accanto ad ogni animale è considerato e descritto il suo acerrimo antagonista, che la natura avrebbe creato per mantenere il giusto equilibrio fra le varie specie. In tale contesto sono riportate leggende, abitudini, proverbi, prodigi, quali, ad esempio, il cane che parla, o le cavalle fecondate dal vento. In questa inesauribile carrellata, gli animali veri si intrecciano a quelli fantastici: dagli elefanti si passa ai dragoni, dai lupi ai licantropi, e via via ad altre creature favolose, nate dalle fantasie, dai sogni o dagli incubi degli uomini, che in seguito popoleranno i famosi bestiari medievali.

Secondo Plinio, il grande spettacolo offerto dalla natura spesso si riproduce - nel suo aspetto più crudele - nel circo o nell’anfiteatro, dove l’uomo è ora vittima, ora carnefice dell’animale. Sia la plebe che i nobili amavano tali orrendi spettacoli, una folla immensa assisteva a lotte all’ultimo sangue tra gladiatori a piedi o su cocchi, oppure tra fiere (leoni contro tigri, rinoceronti contro elefanti), ma anche fra uomini (gladiatori, o condannati a morte, prelevati dalle carceri), contro tigri, orsi, leoni, coccodrilli. Si ricrearono persino le condizioni d’una caccia vera negli ampi spazi dell’anfiteatro popolati di fiere fatte venire dai paesi lontani e allevate nei serragli.

Il nostro fantasioso e scrupoloso “enciclopedista” ricorda probabilmente con nostalgia, mista a rimpianto, un antico provvedimento del senato in base al quale non era lecito importare in Italia pantere africane, annullato in seguito alla proposta avanzata dal tribuno della plebe Gneo Aufidio (170 a.C.,) che, certamente per crudeli ragioni demagogiche, permise di nuovo l’importazione di bestie esotiche per i giochi del circo. E l’uso ignobile dilagò: l’edile Scauro (58 a. C.) fece trasportare a Roma 150 pantere; sotto Pompeo il numero arrivò a 410; sotto Augusto a 420. Per l’inaugurazione del Teatro Marcello fu presentata una tigre addomesticata in gabbia; l’imperatore Claudio ne fece esibire quattro. La moda si sviluppò, e nei giardini dei ricchi belve in gabbia fecero sempre più numerose bella mostra di sé.

Volgendo l’attenzione agli animali acquatici, Plinio osserva che nel mare si trova la più grande varietà di creature dalle forme infinitamente diverse, spesso mostruose, e molto più grandi di quelle che si possono trovare sulla terra. Il mondo animale marino è completamente estraneo a quello degli uomini, abituati a convivere e a dividere la propria esistenza con alcune specie di animali terrestri. Grande è dunque la differenza fra le creature dei due mondi (il terrestre e l’acquatico), e singolare è l’uso di dare alla fauna marina nomi suggeriti dalla somiglianza ad oggetti o animali terrestri o celesti: così il pesce-spada, i vitelli marini, le donnole di mare, la rondine di mare, le chiocciole acquatiche, le stelle marine, il pesce lucerna.

Quando poi si stabilisce un qualche rapporto tra gli uomini e le creature del mare, e dai loro casuali incontri nascono affetti e dimestichezze che hanno un sapore di leggenda, la fantasia di Plinio si accende indulgendo al racconto di storie soavi, come quella dell’amore sorto tra un bambino di Pozzuoli e un delfino finito per errore nel lago Lucrino, sentimento così forte da far morire di dispiacere il delfino quando il bambino muore; o la leggenda, molto nota nell’antichità, del poeta Arione, che, catturato da pirati pronti ad ucciderlo per impadronirsi del suo danaro, ottenne da essi il permesso di suonare la cetra, facendo sì che a quell’incantevole suono accorresse una moltitudine di delfini, uno dei quali portò in salvo fino a riva il poeta.

Nella trattazione che riguarda uccelli e insetti Plinio tenta abbozzi di classificazione, ma subito s’interrompe facendo spazio alla descrizione spettacolare di lotte fra animali alati e terresti, o alla narrazione di storie di amicizia fra animali e uomini e di leggende famose, quale ad esempio quella riguardante le oche del Campidoglio che con le loro strida misero in allarme le sentinelle romane impedendo così l’invasione della città da parte dei Galli. Il melodioso canto dell’usignolo lo induce invece a ricordare che il suo prezzo è così alto da uguagliare quello di uno schiavo, e in certi casi ad assumere un valore incredibilmente elevato, come quello di ben seimila sesterzi pagato dall’imperatrice Agrippina per uno di quei graziosi volatili, ma di colore bianchissimo.

Fra gli insetti, Plinio considera con grande interesse soltanto l’ape: la perfetta organizzazione del lavoro all’interno di un alveare, e il dono del miele, cibo degno degli dei, non potevano sottrarsi alla sua ammirazione. I restanti esseri dalle dimensioni straordinariamente ridotte lo stupiscono: essi sono considerati veri prodigi della natura: In questi animali così piccoli, che sono vicini al nulla, egli vedeva l’indicibile perfezione di cui ha dato prova la Natura! Ma lo stupore non impedisce l’osservazione minuziosa: siano cicale o scarafaggi, zanzare o cavallette, formiche o tarme, puntigliosamente Plinio dà qualche notizia: la brevità della loro esistenza, la leggerezza delle ali, la stagione in cui nascono e quella in cui muoiono, la innocuità o eventuale pericolosità per l’uomo.

Plinio, criticato perché nella sua opera non aveva rispettato i “codici della scientificità”, rispose che egli voleva essere utile occupandosi di tutto ciò che esiste in natura e rende possibile la vita dell’uomo sulla terra. La sua opera è un viaggio affascinante attraverso il mondo animale, vegetale, minerale, per il quale Plinio si offre come guida, pur consapevole delle numerose critiche dei suoi contemporanei più colti, ma anche dell’apprezzamento della gente più comune, quell’ “humile vulgus” per il quale soprattutto egli scriveva.

Nota: nell’immagine mosaico con Scena di caccia (Villa del Casale, Piazza Armerina)

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