Intervista a Luciano Gallino: "Si muove solo la povertà"
Di Roberto Farneti
Intervista a Luciano Gallino, sociologo ed economista
«L’Italia paga l’assenza di politiche industriali e la forte riduzione della domanda interna causata dall’impoverimento del ceto medio e dai bassi salari». L’economista Luciano Gallino indossa per Liberazione i panni del medico e indica al nuovo governo diagnosi e cura della malattia: intervento pubblico finalizzato alla crescita dell’occupazione e manovre per redistribuire il reddito dall’alto verso il basso.
Professor Gallino, secondo l’osservatorio Gei, l’economia italiana è già di fatto in recessione tecnica. A settembre, il nostro è stato il paese della zona euro che ha registrato il calo più alto di ordini industriali: -9,2%, contro il -6,2% della Francia e il -4,4% della Germania. Il presidente Monti ha detto che il nuovo governo porrà maggiore attenzione alla crescita. Di quali interventi l’Italia ha bisogno per tornare a percorrere la strada dello sviluppo?
Prima di tutto sarebbe gradito vedere comparire più spesso nei programmi del governo la parola “occupazione”. Perché esiste anche la crescita senza occupazione. In effetti, quando si parlava allegramente di ripresa tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, in realtà era una crescita senza occupazione, a cominciare dagli Stati Uniti. Quindi il primo obiettivo delle politiche economiche deve essere la crescita dell’occupazione. Sapendo che quello che è stato combinato in decine di anni non lo si può rimediare con programmi a sei mesi o a un anno. Tra i paesi Ue, l’Italia occupa uno degli ultimi posti quanto a spesa per ricerca e sviluppo, sia pubblica che privata, siamo intorno all’un per cento da molti anni. La produttività del lavoro non è fatta di operai che corrono senza sosta nei reparti per star dietro ai pezzi in movimento, ma è fatta di organizzazione, innovazione, mezzi di produzione più avanzati. Siamo agli ultimi posti quanto a numero per milioni di abitanti di brevetti depositati a Bruxelles. E per di più quelli depositati hanno un contenuto tecnologico relativamente modesto. Inoltre, si sono lasciati morire settori fondamentali della nostra industria, a cominciare da quella dell’auto. In Italia siamo a meno di 600mila auto prodotte, mentre i tedeschi sono a 7-8 milioni. Eravamo leader nel settore della cantieristica navale, oggi sta cadendo anche quello perché Fincantieri ha annunciato 2.500 esuberi. La chimica è praticamente scomparsa, negli anni ’60 la Montecatini aveva 55mila dipendenti. Siamo rimasti con una unica grande azienda manifatturiera, Finmeccanica, che ha da poco annunciato più di duemila esuberi nei diversi siti italiani. Abbiamo consegnato un pezzo importante di produzione ferroviaria alla Alstom, con il risultato che i treni che ci servono sono prodotti dal gigante francese. Insomma, paghiamo l’assenza pressoché totale da oltre vent’anni di politiche industriali.
A proposito di Fiat. La disdetta di tutti i contratti annunciata da Marchionne ha fatto arrabbiare solo la Cgil. Secondo il senatore del Pd Pietro Ichino, il piano annunciato dal Lingotto «porterà retribuzioni nettamente al di sopra dello standard fissato dal vecchio contratto collettivo nazionale», nonché «tecnologia avanzatissima e lavoro per migliaia di persone».
Molto interessante. Vedremo. Io però partirei dai dati di questo momento. I quali dicono che Termini Imerese chiude in questi giorni; a Pomigliano si parla di riassumere, entro il febbraio 2012, sì e no mille dei 5mila dipendenti che c’erano prima; a Mirafiori si lavora una settimana al mese in attesa di nuovi modelli di cui non si sa praticamente nulla, per cui l’unica certezza è che i lavoratori resteranno in cassa integrazione fino al 2013. Molti analisti del settore auto cominciano ad avere dubbi sul fatto che il piano di Marchionne possa coprire tutti questi buchi. In più, le vendite della 500 negli Stati Uniti non stanno andando bene e ci sono ombre pure sullo stabilimento serbo.
E allora cosa dovrebbe fare il governo con la Fiat? Secondo l’ex ministro Sacconi, dovrebbe starne fuori.
Questo è quantomeno molto diverso da quello che hanno fatto gli altri paesi. Se la Germania oggi è un gigante dell’industria automobilistica, lo è perché tanto i governi regionali quanto il governo federale sono pesantemente intervenuti. Ad esempio hanno bloccato l’acquisto della Opel da parte della Fiat, hanno favorito accordi per redistribuire l’orario di lavoro. Negli Stati Uniti il presidente Obama è intervenuto direttamente nella gestione della crisi del distretto di Detroit, mettendoci miliardi di dollari. Come si fa a dire “stiamo a vedere cosa combinano le parti sociali”?
Tra l’altro migliaia di lavoratori disoccupati o in cassa integrazione incidono negativamente sul tessuto economico del paese. A settembre le banche hanno registrato in Italia un boom dei prestiti alle famiglie: +5,5%, quasi il doppio che nel resto d’Europa.
Questo è l’altro motivo per cui cresciamo meno che negli altri paesi. Il primo è l’assenza di politiche industriali, il secondo è la forte riduzione della domanda interna determinata dalla caduta del reddito delle persone. Per questo bisognerebbe puntare a una ragionevole redistribuzione del reddito dall’alto verso il basso. La quota salari sul Pil in Italia è diminuita tra gli 8-10 punti negli ultimi vent’anni: un’enormità.
Politiche industriali e redistributive. Sì, ma con quali soldi?
Intanto il potere politico può essere speso per fare delle riforme, delle leggi che spingano i soggetti economici in una direzione piuttosto che in un’altra. E poi è una questione di scelte. Ad esempio i venti miliardi per l’acquisto di aerei militari se fossero investiti in altri settori – cantieristica, auto, ferrovie – beh, farebbero una bella differenza. Uno dei settori da privilegiare e che potrebbe produrre centinaia di migliaia di posti di lavoro è il recupero del dissesto idrogeologico.
Fonte: Liberazione
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