ROMA - La pena di morte in Italia non c’è, ma Stefano l’ha avuta”. E ancora: “La speranza è che il processo vada a monte per ricominciare con dei presupposti più veritieri”. 147, e 148: non sono numeri, ma morti di carcere. Il 148° del 2009 è stato Stefano Cucchi, deceduto il 22 ottobre a 31 anni, in circostanze ancora da accertare, nel Reparto di Medicina Protetta dell’Ospedale Pertini di Roma, sei giorni dopo il suo arresto. 148 Stefano. Mostri dell’inerzia è il documentario di Maurizio Cartolano, prodotto da Ambra Group e distribuito dal Fatto Quotidiano il 30 novembre, che questa sera verrà presentato in anteprima al Festival di Roma: “Restituisce l’immagine autentica di Stefano e dei suoi rapporti con la famiglia, perché la sua storia sopravviva alle ipocrisie: ora è l’unico mezzo, perché sono sfiduciata della vicenda giudiziaria”, dice Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, anima e nerbo del progetto.

Che è un’arma preziosa, perché “il ruolo dell’informazione è fondamentale, il processo mediatico più importante di quello giudiziario”, e si aggiunge a un altro privilegio: “Mi sento quasi irriconoscente e irrispettosa verso le altre famiglie che non possono neanche avere un processo. Noi il processo ce l’abbiamo, ma è tutto difficile, perché il primo processo è alla vittima e alla famiglia. E Stefano è un tossico che meritava di morire”, accusa Ilaria. Eppure, la fiducia nello Stato c’è ancora: “Da cittadina onesta la devo avere, anche se sono pessimista: è normale che una famiglia sia abbandonata a se stessa nelle aule?”. Parole e numeri che bruciano: “148 ristabilisce la verità: in Italia non c’è la pena di morte, ma mio fratello l’ha avuta”. E nemmeno è stata riconosciuta: “Le responsabilità individuali sono evidenti, ancor più quando si coprono i colpevoli: non si parla più di mele marce, bensì di macchiare tutta la categoria”. Picchiato nei sotterranei del tribunale, isolato e lasciato morire all’insaputa dei familiari, Stefano ha rivelato ancora una volta “la realtà spaventosa del carcere: quattro ore con la schiena rotta su una panca di ferro, perché il detenuto è carne da macello e il rispetto per la dignità umana conta zero”. E, dice Cartolano, “poteva accadere a chiunque, come già a Federico Aldovrandi e Giuseppe Uva.

Eppure, in tribunale si nega che Stefano sia stato picchiato: polizia penitenziaria, carabinieri e medici, c’è un sistema omertoso”. E una sola speranza, che Ilaria rivendica: “Io, Patrizia (madre di Federico Aldovrandi), Lucia (sorella di Giuseppe Uva) e Domenica (figlia di Michele Ferrulli) siamo unite e vicine”. E Il futuro prossimo è un’associazione: vittime di Stato?

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