di Francesco Filippi.

Oggi (n.d.r. Ieri), probabilmente, abbiamo assistito alla fine di uno dei grandi cicli della memoria storica del paese.
Un ciclo iniziato nel 1996, quando dallo scranno della presidenza della Camera Violante aprì la porta ai “ragazzi di Salò”: “gente”, si disse, "con degli ideali”.
La sospensione del giudizio pubblico su quegli “ideali” facilitò il lavoro di equiparazione e parificazione dei combattenti dei due campi della nostra guerra civile.
A destra la rivincita e l’orgoglio di essere “sopravvissuti” a decenni di arco costituzionale stimolarono la produzione di una memoria di parte, incentrata sugli episodi e non sui fenomeni di insieme, che culminò con la legge che istituiva la giornata del ricordo. Momento di memoria selettiva che si insinuò, depotenziandoli, tra tutti gli altri punti simbolici del calendario civile italiano.
A sinistra la critica del passato prossimo e remoto gettò il bambino dei valori resistenziali antifascisti con l’acqua sporca della partitocrazia di Tangentopoli, portando al disarmo ideale e al logoramento nella stucchevole polemica quotidiana sul valore implicito ed esplicito di un antifascismo post ’45, mentre il fascismo post ’45 si riorganizzava.
Oggi alla presidenza del Senato si è concluso questo viaggio equiparativo con una sovrapposizione di nomi, simboli e date in una macedonia di passato utile all’oblio più che al ricordo. I monti di valori dalle cui pendici è scaturita la nostra democrazia sono ormai spianati in una landa informe in cui sembra che tutti, pur che siano morti, abbiano o abbiano avuto ragione, complice un giudizio storico incapace di farsi pubblicamente strada. Questa distesa, a cui qualcuno vuol dare il nome di "pacificazione", sembra in realtà avere tutte le caratteristiche di una "parificazione", di una abluzione che ridona verginità.
Da domani ci sarà chi discuterà del passato del nostro paese su piani di uguaglianza non più contestabili, in nome di una cosa che si vorrà "memoria comune” ma che sarà molto, molto altro.
Personalmente continuerò, un po’ cocciuto, a pensare che non si possa idealmente paragonare chi lavorava per riempire i treni verso Auschwitz con chi rischiava la vita per fermare quegli stessi treni. E continuerò a pensare che il 25 aprile è e deve rimanere una data divisiva, perché separa il fascismo dalla democrazia.

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