La grande crisi della piccola impresa agricola
di Claudio Conti
Se gli agricoltori di tutta l’Europa occidentale scendono in strada con i loro trattori, o addirittura con le greggi, significa che c’è un problema comune, anche se le normative nazionali – e i rapporti di forza storici tra i vari paesi – sono spesso molto differenti.
Con uno sguardo superficiale è facile prendere lucciole per lanterne. Chi privilegi le “forme di lotta” sarà attirato dai blocchi stradali, condotti in modo molto determinato, ma scoprirebbe ben presto che – stavolta sì, al contrario delle mobilitazioni dei Gilets Jaunes o contro la riforma delle pensioni – la destra radicale, non solo in Francia e Germania, ci mette il suo zampino.
Basterebbe vedere il diverso atteggiamento del ministro dell’interno francese, Darmanin, che stavolta ordina alla polizia di “controllare da lontano” e non intervenire, mentre negli altri casi comandava cariche durissime e largo uso di proiettili di gomma o flashball. Si vede, insomma, che questi sono o erano “i loro”…
Chi privilegia l’ecologia, al contrario, non può che disprezzare una protesta che tra i vari punti (un altro tratto comune ai diversi paesi) ha la libertà di utilizzo di pesticidi e fertilizzanti chimici, nonché il mantenimento di forti sconti sul prezzo del “gasolio agricolo” (lo stesso usato per l’autotrazione, ma con accise e Iva molto ridotti).
Evidente, insomma, che questi approcci ideologici non aiutano a capire. E, come sempre, è meglio “follow the money” per districare nodi apparentemente inamovibili.
Di certo c’è che l’agricoltura europea è stata drogata per anni dalla “Pac” (politica agricola comunitaria), che ha distribuito risorse pubbliche per compensare le differenze di rendimento tra produzioni nazionali diverse o anche tra vari comparti della produzione nazionale.
Il passaggio alla nuova fase, però, sembra il brancolare di un cieco un po’ storpio che non sa dove andare né come farlo.
Le “direttive” provenienti da Bruxelles, in effetti, sono tra loro profondamente incoerenti, anche se ognuna viene scritta seguendo silenziosamente la regola annunciata da Giorgia Meloni fin dal suo esordio come “premier”: non disturbare le aziende.
Il problema è che “le aziende” sono diverse tra loro per dimensione, posizione di mercato, interessi immediati e di lungo periodo, specializzazione produttiva. E ciò che va bene ad un certo tipo di imprese è la morte per altre.
Gironzolando tra i trattori fermi a un casello stradale è piuttosto semplice sentirsi consegnare il cahier de doleance degli agricoltori di medio livello, titolari di aziende con pochi addetti (spesso familiari): a) il prezzo dei prodotti agricoli viene fatto e imposto dalle industrie di trasformazione o dalla grande distribuzione; b) il costo della lavorazione del terreno (aratura, semina, trebbiatura, eliminazione dei parassiti, ecc) segue le dinamiche dei prezzi energetici; c) il cambiamento climatico sta rendendo difficile proseguire con le colture storiche dei territori (l’anno scorso è stato durissimo per gli ulivi, l’uva, gli alberi da frutto, con raccolti limitati o nulli); d) alla fine, tra uscite ed entrate, “non ci si sta dentro”.
Si possono considerare ovviamente un po’ esagerate le dimensioni dei danni calcolate dai diretti protagonisti, ma c’è molto di vero.
L’Unione Europea, come detto, fa cadere su questo mondo (il settore primario dell’economia) una pioggia di regole contraddittorie. Le analizzava qualche giorno fa su Teleborsa, con il consueto acume, Guido Salerno Aletta, economista ed ex vicedirettore di Palazzo Chigi, tra l’altro ora anche produttore di vino e dunque conoscitore “da dentro” della materia.
“La schizofrenia non è una malattia, a Bruxelles, ma una ben sperimentata tecnica di governo: basta dare ragione a tutte le proposte più estreme, dagli ecologisti che chiedono il ritorno alla Natura incontaminata alle Multinazionali che continuano a dettare legge con le loro tecnologie in campo agricolo e nella alimentazione sintetica, per vantarsi di essere sempre all’avanguardia.”
Ma, appunto, le regole ecologicamente più sensate (“combattere l’abuso dei concimi chimici che bruciano il terreno, i diserbanti asserviti alle singole varietà coltivate, i pesticidi che da una parte contrastano gli insetti e gli organismi patogeni e dall’altra annientano gli agenti impollinatori, come le api. Nel settore dell’allevamento, si impongono giuste regole sul benessere animale, con il divieto di gabbie anguste e di metodi strazianti per l’abbattimento dei capi”) in questo sistema di produzione si traducono in un aumento dei costi di produzione in capo agli agricoltori e allevatori. E dei consumatori, ovvio…
Sull’altro lato, la libertà d’azione concessa alle multinazionali – sia delle filiere agroalimentari che delle biotecnologie e della grande distribuzione – spinge per una riduzione continua dei prezzi della “materia prima” (i prodotti agricoli). Persino il Corriere è costretto ad ammettere che quanto preteso dalla multinazionale francese Lactalis – un litro di latte viene pagato solo 42 centesimi – riduce alla fame i fornitori.
In più, approvando programmi di “rinaturalizzazione” di alcune aree territoriali, in modo da ricostruire una biodiversità senza interventi biotecnologici, ma senza prevedere una politica complessiva che renda ordinariamente redditizia l’attività agricola, la stessa UE di fatto restringe le aree coltivabili per la produzione.
“La conseguenza di questa decisione è aberrante: voler ridurre il territorio da destinare all’agricoltura, per restituirlo alla Natura incontaminata, significa dover sfruttare maggiormente quello che rimane. Invece di favorire il ritorno all’agricoltura sostenibile e all’allevamento brado, si aumenta il differenziale naturalistico tra le aree protette e le aree coltivate.”
Che va di pari passo con l’impostazione neoliberista per cui, in assenza di interventi “dirigistici” degli Stati, i prodotti biologici costano inevitabilmente di più di quelli “normali”, tirati fuori usando pesticidi, ecc.
Ovvero quei prodotti che altre multinazionali (sia dell’agroalimentare che della distribuzione) cercano di ottenere a prezzi sempre più bassi, in modo da massimizzare i propri profitti a scapito di altre imprese (e ovviamente del consumatore finale, impossibilitato a risalire le filiere per sapere cosa mangia).
E già si intravede un ulteriore salto di qualità, naturalmente peggiorativo: “Non è un caso, a questo punto, che la Food and Drug Administration statunitense abbia già dato la sua autorizzazione alla commercializzazione della carne di pollo prodotta in laboratorio: dopo gli OGM in agricoltura, le Multinazionali puntano a spiantare l’allevamento tradizionale con la carne sintetica.”
E’ la descrizione di un processo di violenta concentrazione dei capitali. Con quelli più grandi che come sempre cannibalizzano quelli più piccoli e impossibilitati a “differenziare gli investimenti” (i terreni non si spostano, al massimo puoi cambiare cambiare prodotto finale, ma cambia poco).
Ricostruita così la mobilitazione degli agricoltori risulta a tutti gli effetti una “lotta di classe”… all’interno della borghesia. E i governi europei si trovano a dover gestire la crisi del consenso piccolo-borghese – da cui traggono sia il grosso dei voti che la “narrazione” con cui orientare il grosso della società – senza mai scontentare “i mercati” (definizione “immateriale” dietro cui si nascondono i gruppi multinazionali, sia industriali che finanziari).
Un rebus che la UE, come si è visto, ha deciso di non sfiorare nemmeno (“dando ragione a tutti”). Coltivando così – è il caso di dire – le condizione per uno scontro sociale interno sempre più complicato e duro. Con molte guerre alle porte…
Fonte: Contropiano.org
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