Il movimento civile chiede di non cedere alla logica del profitto

È dall’acqua che tutto è incominciato. Non solo il tutto della vita, che, com’è noto, vi ha mosso i primi passi, ma, più vicino a noi, il “tutto”, il più, di questa nuova stagione politica. Sono stati, cioè, i quesiti referendari sull’abrogazione dell’affidamento del servizio idrico a operatori privati e del calcolo della tariffa secondo logiche di mercato (comprendenti il profitto d’impresa) a suscitare, all’atto della loro proposizione, un’enorme mobilitazione che, in poco tempo, ha battuto ogni record nella raccolta di firme e, soprattutto, ha reso visibile un grande, ramificato movimento civile presente ovunque, reclamante un nuovo ruolo e un nuovo peso per i servizi di interesse pubblico.

Fukushima era di là da venire, e Chernobil sembrava lontanissima, mentre sul legittimo impedimento, la propaganda governativa rimestava nella solita evocazione del giustizialismo e delle “toghe rosse”. Così è stato soprattutto il tema dell’acqua a suscitare discussione, passione, partecipazione. Non si contano i comitati sorti in tutta Italia per raccogliere le firme, ma essi non sono che l’esito di un movimento che li precede, che da tempo ha messo al centro del proprio interesse la riscoperta dei beni comuni e della loro gestione pubblica (anche in forme innovative e non è un caso se un recente premio Nobel per l’economia è andato a una grande studiosa proprio di questo tema, Elinor Olstrom). Un movimento trasversale, che ha visto e vede agire insieme parroci e no global, pubblici amministratori e ricercatori, gruppi di base ed esperti di “commons”, economisti ed ecologi, avanguardia di un radicale rinnovamento del linguaggio e dei contenuti dell’azione collettiva tuttora in corso e per niente estraneo ai cambiamenti anche elettorali appena registratisi.

E’ attorno all’acqua che si sono raccolte le istanze di revisione o di netto antagonismo alla privatizzazione di beni e servizi imperante nel linguaggio e nelle politiche attuate o progettate da almeno un paio di decenni nel nostro paese (in modo bipartisan, spesso). Sono state proprio le prime privatizzazioni del servizio idrico, in Italia e all’estero, a far nascere perplessità e aperte opposizioni. I “privati” non portavano affatto quei capitali che avrebbero dovuto potenziare e migliorare le reti distributive, né quell’economia razionale e accorta che avrebbe dovuto sanare bilanci e ridurre tariffe. Al contrario, l’ingresso di imprenditori, società e multinazionali nella gestione dell’acqua non ha prodotto nessuno di questi attesi benefici e ha invece dimostrato che applicarvi una logica volta al profitto conduce a socializzare i costi (ad esempio degli investimenti sulla rete) e le perdite e a privatizzare nient’altro che gli eventuali profitti.

Quanto a questi ultimi, in prospettiva, non c’è dubbio che siano da attendersi in misura copiosa, man mano che l’acqua tenderà a scarseggiare - per gli sprechi, per i guasti da inquinamento, per la siccità dovuta al “climate change”, per l’appropriazione in poche mani - e che quindi essa rappresenterà il “petrolio del XXI secolo”, un colossale business. Proprio questa crescente consapevolezza, però, ha motivato, anche nelle istituzioni, non solo in Italia, una spinta fortissima alla difesa del carattere pubblico dei servizi. L’appuntamento referendario, perciò, rappresenta una straordinaria occasione per fare di questa mobilitazione consapevole e competente, niente affatto ideologica, l’inizio di un radicale ripensamento non solo sulla centralità del servizio idrico ma di ogni altro servizio pubblico che riguardi ciò che venga considerato, nella coscienza civile, un indispensabile, indisponibile, bene comune.

 

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