di Elio Clero Bertoldi
Per oltre tre secoli l’oceano l’ha difeso e protetto. Il relitto, infatti, a seicento metri di profondità, risultava introvabile ed anche irraggiungibile. 
Le nuove tecnologie, però, non hanno avuto scrupoli: l’hanno individuato e fotografato. Ora tutto è pronto per il recupero. Un robot sottomarino teleguidato da una nave multifunzione, effettuerà il complesso lavoro di recupero. Si stanno mettendo insieme i quattro milioni e mezzo di investimenti necessari a riportare quel che resta dell’antico galeone spagnolo in superficie. Vi sembra una cifra spropositata? Certo, ma rappresenta poco o nulla a fronte del valore che il veliero nasconde nelle sue stive e che gli esperti hanno quantificato in trecentoquarantataquattro tonnellate di oro e argento e in 116 contenitori di smeraldi del Perù. Valore del tesoro al cambio attuale? Venti milioni di dollari!
In attesa che la Colombia (nel cui territorio è affondato il relitto), la Spagna (che rivendica la proprietà della nave e del suo carico) e la Sea Search Armada (società USA che ha individuato il galeone nel fondo dell’Atlantico al largo di Cartagena), risolvano il complesso contenzioso - ognuna delle parti rivendica a se stessa la proprietà del bottino - può essere interessante conoscere la storia del San Josè, il veliero della... discordia.
Correva il 1708. Varato dodici anni prima dagli spagnoli, il San Josè, 1066 tonnellate, aveva preso il largo da Portobelo, Colombia, il 28 maggio, con un seguito di 14 imbarcazioni, tra le quali altri due galeoni, il San Joaquin e il Santa Cruz. Al comando il capitano Josè Fernandez de Santillan. La ”scorta” risultava indispensabile, sia per eventuali assalti dei pirati, che infestavano il mar dei Caraibi, sia perché la Spagna, in quel periodo, era pienamente coinvolta nella guerra di successione spagnola. All’Havana, Cuba, gli iberici avrebbero potuto contare sui rinforzi di una flottiglia francese, al tempo alleati, guidata dall’ammiraglio Jean Battiste du Casse. Ma a Cuba gli spagnoli non arrivarono mai. Il San Josè costruito nel cantiere di Mapil, in terra basca e “rinforzato” a Cadice, si presentava bene armato: 46 cannoni calibro 16, 8 calibro 10 ed altri 8 calibro 7, con un equipaggio di poco meno di 600 marinai. Sulla loro strada, tuttavia, il 10 giugno, i velieri con le insegne di Filippo II si imbatterono nella flotta del corsaro inglese Charles Wager, che complessivamente poteva contare su poco meno di 200 cannoni. 
L’impari battaglia si protrasse per una decina di ore e finì con l’affondamento del San Josè e la morte di quasi tutti gli uomini imbarcati. 
Un bel colpo per i corsari britannici - la HMS Expedition del capitano Henry Long, la Kingston del capitano Simon Bridges, la Portland del capitano Edward Windsor e la Volture del commodoro Caesar Brooks -, ma che, forse, se avessero conosciuto il prezioso carico del veliero spagnolo, avrebbero tentato l’abbordaggio più che la distruzione a colpi di bombarda della nave nemica. Quel tesoro, che avrebbe potuto condizionare la prosecuzione della guerra in Europa, doveva a servire a Filippo II ed a suo zio Luigi XIV di Francia, suo alleato in quella fase, avrebbe fatto particolarmente gola anche a Giorgio I, re di Gran Bretagna. Ora potrebbe rendere felici i tre litiganti che, forse, alla fine si spartiranno le opime spoglie. Sette miliardi di dollari a testa restano, pur sempre, un bel prendere, no?

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