Ecco fatto, il Governo rifinanzia la guerra
di Giuliano Battiston
Con automatismo acritico, la Camera dei deputati ha deciso di finanziare robustamente le operazioni di guerra in Afghanistan, marginalizzando le iniziative civili. Ieri è stato convertito in legge il decreto legge del 29 dicembre 2011 (n. 215), relativo a: «proroga delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione, partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione». Il decreto stabilisce risorse finanziarie, «umane» e diplomatiche da destinare nell'intero corso del 2012 alle varie aree conflittuali del mondo, e dovrebbe rispondere a una chiara idea di politica estera. Quella di cui il governo Monti, in continuità con il precedente governo, sembra non disporre, vista l'insistenza con cui persegue una visione strategica limitata alla combinazione tra la fedeltà atlantica e i più prosaici interessi economici e commerciali (come dimostrano gli stanziamenti previsti per la Libia, di cui il manifesto si è occupato ieri).
Il caso dell'Afghanistan è esemplare, perché racconta della volontà politica di puntare quasi esclusivamente sulle operazioni militari, a scapito della cooperazione allo sviluppo e del processo di stabilizzazione. Per il 2012, la partecipazione del contingente italiano alla missione Isaft-Nato e, in misura moltro ridotta, a quella della forza europea Eupol, vale quasi 748 milioni di euro, a cui si aggiungono poco più di 3 milioni per le attività della Guardia di finanza. Per la cooperazione allo sviluppo, sono invece stanziati 34 milioni e 700mila euro, da distribuire tra le attività in Afghanistan e quelle in Pakistan. Numeri che contraddicono da una parte le parole del ministro degli esteri Giulio Terzi, che pochi giorni fa al senato aveva promesso la partecipazione dell'Italia agli «sforzi della comunità internazionale per promuovere la pace». E dall'altra quelle dello stesso presidente del consiglio Mario Monti: durante la conferenza stampa di presentazione dell'accordo bilaterale firmato con Karzai il 26 gennaio a Roma, Monti aveva promesso un'inversione di rotta, un maggiore impegno dell'Italia nel settore civile ed economico e la contestuale riduzione di quello in ambito militare.
Anche l'altra promessa di Monti, l'assistenza italiana nell'addestramento dell'esercito e della polizia afghani, appare già disattesa: il contributo al fondo fiduciario della Nato a sostegno dell'esercito nazionale afghano e al fondo congiunto Nato-Russia «Council», destinato all'elicotteristica, ammonta a 3 milioni e mezzo di euro. Una cifra inferiore a quella auspicata dal governo Karzai, che negli ultimi mesi ha insistito molto con i partner occidentali affinché destinassero maggiori risorse all'addestramento e all'equipaggiamento delle forze locali, ancora impreparate ad assumersi la responsabilità della sicurezza in molte aree del paese.
Con l'approvazione della legge sul rifinanziamento delle missioni estere, il governo dei presunti tecnici ha perso l'occasione per segnalare una discontinuità rispetto al passato, oltre che per assumere un ruolo di primo piano nella complicata fase con cui, da qui al 2014, verrà restituita sovranità all'Afghanistan, perlomeno formalmente.
Alla conferenza internazionale di Bonn del 5 dicembre 2011, tutte le cancellerie occidentali hanno assicurato un sostegno di lunga durata al governo afghano, soprattutto in ambito civile, anche dopo il ritiro delle truppe. Sono in pochi, però, e tra questi in particolare quello danese, i governi che alle dichiarazioni hanno fatto seguire azioni conseguenti.
L'Italia non è tra questi, come denuncia tra gli altri Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci! - che insieme a Tavola della pace e Rete italiana per il disarmo ha lanciato un mese di mobilitazioni «per dire no agli F-35» -, secondo il quale «in Afghanistan si continuano a spendere ingenti risorse per una vera e propria missione di guerra, mentre bisognerebbe investire in iniziative di pace e di cooperazione».
Fonte: Il Manifesto
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