Dopo Liberazione rischia chiusura anche Il Manifesto. Ma ci sono buone notizie
di Norma Rangeri
Trecentomila euro in dieci giorni, 272 nuovi abbonamenti, sostenitori da tutto il mondo, vendite in ripresa. Tutto quello che osavamo sperare si sta verificando. La liquidazione amministrativa del manifesto ha svegliato i lettori più lontani, ha mobilitato quelli più vicini, ha allarmato la cultura. Ha invece lasciato indifferente il mondo dell'informazione, naturalmente con qualche lodevole eccezione. Come se il bavaglio al pluralismo delle voci fosse una parola di plastica, modellabile a uso e consumo ai tempi del governo Berlusconi. Come se la scomparsa delle 400mila copie quotidiane vendute dal centinaio di testate a rischio, in fondo fosse un bottino di guerra sull'asfittico mercato italiano (vale solo la pena di ricordare che nell'Italia del 2012 si vende lo stesso numero di giornali del 1936).
Grazie a tutti voi che avete scelto di stare con noi, nell'ultima nostra, decisiva battaglia. Tutte le copie che oggi vendiamo sono un bene prezioso che vogliamo coltivare, una per una, migliorare e incrementare. Anche se è difficile, chiunque lo può capire, produrre più qualità con prepensionamenti e cassa integrazione, una riduzione del costo del lavoro che si somma a un livello salariale basso e precario. Ma questo lo sapete già come lo sapevamo noi quando ci siamo assunti le nostre responsabilità nella fase più ardua di questa lunga storia.
Nell'appello di copertina del primo giorno («Senza Fine») abbiamo scritto che le nostre difficoltà sono state esasperate con i tagli ai fondi dell'editoria, e se anche domani il Fondo fosse rifinanziato, i tempi della non decisione del governo ci hanno provocato un danno economico molto grave. Ma, subito dopo, indicavamo nel crollo della pubblicità il secondo elemento del deficit di bilancio. Come per l'azzeramento dei contributi pubblici, anche su questo dolente capitolo la crisi del paese non c'entra, o almeno, non spiega tutto.
In Italia, dove fa da padrone un mercato fasullo, la pubblicità va dove la porta un sistema di relazioni e di conflitti di interesse che nulla ha a che vedere con le vendite del giornale. E se non hai un finanziatore alle spalle, lesto a ripianare i conti, se non hai un partito che un potere, più o meno grande, ce l'ha, allora devi (dovresti) rassegnarti e mollare.
Il terzo punto su cui insistiamo è la crisi della sinistra, il naufragio di una cultura politica del cambiamento, così debole e divisa da essere zittita e sopraffatta dal ventennio berlusconiano prima, dallo strano governo dei tecnici dopo. Noi che della sinistra italiana rappresentiamo una radice antica, eretica e plurale non potevamo non soffrirne le conseguenze.
È evidente che il governo dei professori non ci ha fatto del male solo nel sottrarci il 23 per cento delle entrate di un bilancio annuale, ma ancora ce ne farà perché l'ideologia che lo sostiene poggia sull'idea di uno stato di necessità senza alternative (il ritornello dei talk-show è sempre più assillante: destra e sinistra sono superate).
E dunque ripetere che il governo Monti non ci piace non può bastare, come l'antiberlusconismo non è bastato a disarcionare il Cavaliere finché non è diventato indigesto, al di qua e al di là dell'Atlantico. La dualità di cui ha scritto Alberto Asor Rosa nell'approfondita ricostruzione del passaggio da Berlusconi a Monti, quando per la prima volta il «governo» si stacca dalla «politica», dove «i rappresentanti del popolo sono solo l'interfaccia del potere», indica l'impiantarsi di un asse strategico di lungo periodo del quadro italiano, un cambiamento profondo della fase attuale.
Dobbiamo misurarci con scenari inediti e forze poderose, che fanno intravedere «una colossale pulsione centrista», con il Pd sempre più vaso di coccio.
Non sappiamo, oggi, quali partiti avremo domani, mentre il frutto del «montismo» potrebbe già precipitare nella riforma elettorale in gestazione. Mai come adesso i partiti sono scesi così in basso nel gradimento degli elettori (le analisi di Ilvo Diamanti lo spiegano bene), mentre galoppa il senso comune sulla necessità delle ultime scelte economiche, sull'inutilità della politica (palazzo Chigi ripete come un vanto i pochi giorni di sciopero per i tagli alle pensioni). E le elezioni sono sempre più vicine.
Per affrontare il viaggio controcorrente abbiamo bisogno delle ragioni e della forza di una sinistra nuova davvero. Il nostro laboratorio, è quel che più conta, lavora insieme a una parte, tanto larga quanto scarsamente rappresentata, della società italiana.
Naturalmente penso allo straordinario sviluppo del dibattito sui beni comuni di cui questo giornale è stato interprete e promotore, penso al referendum sull'acqua, sorgente di grandi novità, alle vittorie esaltanti nelle città (da Milano a Napoli), al recente Forum dei Comuni sui beni comuni, di cui siamo stati parte attiva. Penso alla sfida di una sinistra affrancata dallo sconfittismo, impegnata nella costruzione del suo progetto di alternativa, decisa a volersi cimentare con il tentativo di governare il paese.
E di fronte al nuovo capitalismo, alla perdita di centralità della fabbrica, alla prepotente questione ambientale, non è poco quel che una sinistra anticapitalista è obbligata a cambiare, non è piccolo il compito di chi, come noi, la vuole rappresentare e, con tutti i limiti, ripensare. La nostra ambizione dovrebbe essere quella di fare un giornale - come ci consigliava Ermanno Rea - non più aggressivo, ma più analitico, più simile a un laboratorio, estendendo la formula, già da qualche tempo praticata, del giornale aperto a una vasta area di pensiero dissidente e alternativo.
Fonte: Il Manifesto
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