di Patrizio Gonnella 

Una donna nigeriana si è lasciata morire di fame e di sete in carcere a Torino. Non mangiava da tre settimane. Non beveva da qualche giorno. Pare avesse rifiutato il ricovero. Era mamma di un bimbo di quattro anni con problemi di autismo. Si è lasciata morire. Era reclusa in un reparto interno psichiatrico che, viste le condizioni, andrebbe chiuso. Non proprio il luogo giusto per tenere sotto controllo medico una persona che ha bisogno di sostegno morale e sanitario e non di sola sorveglianza.

Nessuno aveva avvertito la Garante comunale. A Torino operano etnopsichiatri che non sono stati attivati. Poche ore dopo una donna italiana si è suicidata nello stesso carcere. Pare fosse alla prima esperienza detentiva. Una terza detenuta si era tolta la vita qualche settimana fa sempre nello stesso istituto. Un quarto detenuto era stato trovato morto suicida a metà luglio, anche lui nel carcere del capoluogo piemontese.Siamo ad agosto ed è in corso una mattanza carceraria. Non provare a porvi rimedio significa essere corresponsabili di ognuna di queste morti.

Dall’inizio del 2023, più o meno un giorno sì e un giorno no, un detenuto muore nelle carceri italiane. Purtroppo ci si abitua a tutto, vinti da cinismo e stanchezza. Si susseguono le morti nell’Italia carceraria. Si può morire nelle mani dello Stato a Torino, così come a Milano o a Cagliari. Dappertutto. Una sequenza tale che dovrebbe indurre il paese e le istituzioni a riflettere, ripensarsi e ovviamente intervenire.

Da tanto, troppo tempo il carcere è fermo. Non c’è una visione condivisa su quello che dovrebbe essere la pena. Di fronte agli oltre novanta morti dall’inizio dell’anno, di cui poco meno della metà per suicidio, ci vorrebbe una reazione indignata di massa che travolga, come una valanga, stanchezza e cinismo, che non di rado si sommano a cattiveria, ingiustizie e egoismo. I numeri elevati riducono il singolo detenuto a un numero di matricola, a un fastidio da neutralizzare. La sua disperazione resterà anonima.

Alla fine di luglio i detenuti hanno quasi raggiunto le 58mila unità, circa 10mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare. Il tasso di affollamento effettivo, alla luce dei posti realmente disponibili e dei reparti provvisoriamente chiusi, supera il 120%, con punte altissime in singoli istituti, come a Brescia (181,1%), Como (178,3%), Varese (177,4%) o Foggia (177,2%).

Nel solo ultimo anno vi è stata una crescita del 5% della popolazione reclusa, nonostante non si assista a una escalation degli indici di delittuosità.

Il sistema della giustizia penale si è inutilmente e pericolosamente irrigidito: le pene sono più lunghe, i benefici si riducono. Si pensi che una persona condannata su due (ben 21mila detenuti) ha un residuo pena inferiore ai tre anni. Una parte di loro potrebbe accedere a forme di esecuzione penale esterna.

Cosa significa in termini di vita quotidiana vivere in un carcere affollato?

Significa in sequenza: non avere spazi vitali per sé e per la propria vita; non essere riconoscibile o riconosciuto da medici, educatori, poliziotti, direttori, psicologi o dal cappellano (per chi è cattolico); assistere a una riduzione delle occasioni di vita lavorativa, sociale, culturale, educativa che non si moltiplicano al moltiplicarsi dei detenuti.

Il sistema carcerario ha bisogno di una profonda innovazione che lo sottragga alla pre-modernità (in carcere internet è considerato il male assoluto), alle sue prassi consolidate, a loro volta fondate su stanchezza e cinismo.

In non pochi casi le storie delle persone detenute che si suicidano ci raccontano che il gesto coglie di sorpresa tutti e avviene all’inizio o alla fine della pena. E allora sarebbe importante investire risorse ed energie su questi momenti della reclusione, ad esempio prevedendo celle per l’accoglienza che non siano le peggio messe del carcere nonché momenti autentici di informazione e presa in carico da parte degli operatori, senza limitarsi a riempire questionari burocratizzati sul rischio suicidario definendolo basso, medio o alto.

Così come alla fine della detenzione andrebbero organizzati corsi e momenti qualificati di preparazione al rilascio. Di fronte a tutto questo il silenzio delle istituzioni è complice.

Fonte: Il Manifesto

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