di Salvatore Cannavò

 

Hanno ragione i senatori 5 Stelle che rivendicano il diritto a votare come credono? O Grillo che chiede a tutti di attenersi alle regole del movimento? E gli elettori devono partecipare o no? Le riunioni vanno trasmesse in streaming tutte o no? Un po’ alla volta contraddizioni e fili complessi stanno venendo al pettine. La democrazia 2.0 promessa dal Movimento Cinque Stelle fa i conti con le strutture della democrazia istituzionale e rappresentativa e ci si tormenta. Si è fatta molta ironia sulla mancata diretta streaming della riunione dei senatori grillini riuniti a porte chiuse per discutere del voto per la presidenza del Senato. La promessa che era apparsa la più rivoluzionaria – “metteremo tutto in rete, vogliamo la trasparenza” – è stata disattesa al primo passaggio impegnativo. E “trasparenza”, paradossalmente, ha chiesto lo stesso Beppe Grillo, per lanciare il suo “altolà” ai senatori dissidenti.

 

La rete, poi, in particolare i commenti al post di Grillo, hanno reso esplicita una discussione e una divisione trasversali. Il problema su “chi decide?”, quindi, torna a porsi e proporsi all’attenzione generale. E la discussione merita di essere affrontata se, come nel caso del M5S, si vuole fare un discorso “rivoluzionario” sul tema, ipotizzando, o vagheggiando, forme di rappresentazione diretta o, addirittura, l’estinzione della stessa rappresentanza una volta che “i cittadini” si fossero impadroniti della cosa pubblica.

 

Il problema è che, come spesso capita quando si parla di democrazia, si sorvola sulla stretta connessione che esiste tra forma e contenuto. La forma della rappresentanza parlamentare è fatta apposta per edulcorare quel complesso di relazioni sociali e di conflitti che la sottendono, che ne sono alla radice storica e che, però, sono stati messi fuori dalla porta in nome di un equilibrio statuale-sociale. La democrazia italiana, in parte quella occidentale, è in crisi da almeno venti anni, dalla stagione di “mani pulite” e quindi dalla crisi della cosiddetta Prima Repubblica. In realtà, in Italia, è in crisi dagli anni 70, da quando l’irruzione dei movimenti di massa, del conflitto operaio, della lotta studentesca, della radicalizzazione politica, ha impattato contro un sistema “democratico” che si è blindato condannandosi, da lì in poi, alla deriva istituzionale.

 

Ci provarono Moro e Berlinguer a farsi carico dell’impasse con una soluzione che, però, andava in senso contrario alla domanda che saliva dalla società. E non è un caso che, dopo la stagione fallimentare del “compromesso storico” e del “governo delle astensioni”, la crisi del Pci si sia intrecciata con quella strisciante, e allora non visibile, di Dc e Psi tanto che l’allora leader socialista, Bettino Craxi, iniziò a parlare della necessità della “grande riforma” costituzionale vagheggiando un sistema presidenziale. Il sistema che, guardando a Stati Uniti e Francia, appariva il più adatto a garantire la “governance” di una società spaccata, attraversata da conflitti profondi e in cui la crisi economica degli anni 70 – allora la più grave del dopoguerra, sostanzialmente mai risolta – rompeva con la crescita inclusiva del dopoguerra e iniziava a generare la precarietà e l’impoverimento dei salariati che oggi è esploso con più vigore.

 

Quesat crisi è stata resa ancora più plateale del ventennio berlusconiano con la sua pretesa di rappresentare la stabilizzazione moderata e capitalistica dell’Italia nella globalizzazione – ricordiamo ancora il senso di Genova 2001? – senza però riuscirci mai e, anzi, incarnando costantemente l’anomalia di sistema, impedendo attivamente, anche in questi giorni, un approdo per lo meno transitorio della “governance”.

In questa crisi si è introdotto l’esperimento grillino in cui la rabbia “anti-casta”, dovuta soprattutto all’attuale condizione sociale, costituisce l’aspetto preponderante ma in cui si possono rintracciare altri due elementi importanti: la “speranza” di dare una scossa, strattonando i progressisti in senso “democratico-ugualitario”; l’idea, gestita dal settore più militante, di fondare una nuova democrazia. Nella “narrazione” di Grillo questo elemento occupa un posto decisivo così come nell’ideologia costruita da Gianroberto Casaleggio.

 

La contraddizione più evidente di questa impostazione è che non si può realizzare una prospettiva di “democrazia assoluta” – ammettendo che l’utilizzo della rete ne rappresenti il viatico – sovrapponendola alla democrazia rappresentativa. Su questo punto si comprende la radicalità della posizione di Grillo: non ci si può mai mescolare con gli altri, non si vota assieme, non si cumulano le due visioni di rappresentanza. Quindi, la tesi, è stato un errore partecipare all’elezione del presidente del Senato. Ma che ci stai a fare in Senato se non voti mai? Se non partecipi alle scelte? In fondo il Cinque Stelle ha chiesto una delega per rappresentare alcune istanze e queste si intrecciano alle scelte degli altri soggetti politici. Nel momento stesso in cui si è scelto di rappresentare e di farsi rappresentanti si è scelto di partecipare al gioco e la purezza assoluta è stata minata alla radice.

 

Grillo è vittima di questa contraddizione che non potrà esorcizzare facilmente. Ieri è stata la volta di Piero Grasso, domani sarà quella dell’elezione del Presidente della Repubblica, poi di una qualche misura gradita, etc. In ogni passaggio la partecipazione al gioco comporterà una valorizzazione del grado di democrazia rappresentata e il deputato o il senatore dovrà rappresentare le scelte che ritiene di incarnare. Lo potrà fare a maggioranza con il proprio gruppo parlamentare ma, al di là dell’articolo 67 e del mandato imperativo, agirà comunque in relazione al proprio mondo, alla propria coscienza, ai propri convincimenti.

 

L’idea di fondo di Grillo, a quanto si capisce dall’esterno, è che comunque dovrà farlo in maniera rigida, votando solo le indicazioni del movimento di appartenenza e della “rete”. Ma, allora, in questo caso, chi decide? In che modo? Con quali garanzie? Beppe Grillo ha tutto il diritto di chiedere ai suoi parlamentari di sottoporsi alle scelte della base, ma questa base deve manifestarsi, organizzarsi, partecipare. Anche per mostrare la propria qualità sociale che al momento sfugge. Se i senatori si fossero riuniti pubblicamente, mostrando le proprie diverse inclinazioni e sottoponendo a una votazione più ampia, avrebbero introdotto un elemento di novità nei sistemi di rappresentazione democratica. Ma una votazione più ampia va organizzata, individuando la platea dei votanti: gli iscritti al M5S? E perché no gli elettori? Con un quorum o senza? Con quale grado di informazione collettiva? Più si ampliano le procedure, più si introducono varianti e più i problemi da risolvere aumentano.

 

E questo perché la democrazia non può essere ridotta a una “formalità”, al modo in cui si vota, a un voto puntuale. E’ un processo politico e sociale, un esercizio di partecipazione sociale, è conflitto, scontro anche duro. Se esistesse davvero, vivrebbe al di là dell’interruttore acceso dal leader di turno, marcerebbe sulle proprie gambe. Come ha fatto in alcuni, pochissimi, momenti storici (tra l’altro finiti male): con la Comune di Parigi o con le varie esperienze di consigli operai (o di contadini e soldati come nel ’17 in Russia). Non è facile prevedere come possa darsi oggi un processo di democrazia diretta, probabilmente la Rete sarebbe essenziale viste le sue qualità tecniche. Potrebbe prevedere una fase di relazione dialettica con le istituzioni di rappresentanza delegata ma senza una dialettica conflittuale alla fine soccomberebbe. Soprattutto, non avrebbe vita lunga se non fosse incarnata su figure sociali, su soggetti riconoscibili, attori di una realtà che è lungi dall’essere pacificata e in cui non tutti o tutte sono uguali.

 

Questo è il punto debole del ragionamento grillino, anche quando avanza una provocazione utile. A mancare del tutto è una dimensione di partecipazione, una realtà sociale organizzata, l’irruzione soggettiva. Nella sua rappresentazione manca il conflitto e manca l’autorità dei soggetti sociali, condizione che rende assoluto il suo protagonismo e la sua leadership. Nessuna democrazia mimata al computer può surrogare questa dimensione, decisiva per innescare un meccanismo di trasformazione e fondamentale per dare significato alle scelte più radicali. Essenziale, soprattutto, per innescare un processo in cui, alla fine, a soccombere sia l’attuale democrazia rappresentata per affermare una democrazia superiore. Senza questa partecipazione, sociale e diretta, i personaggi di questa rappresentazione rimarranno soldatini di piombo gettati nella corrente, spiriti liberi fluttuanti nell’aria.

 

Fonte: ilmegafonoquotidiano.it

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