LA DEA RAGIONE DI BENEDETTO RATZINGER
di Ida Dominijanni
La cosa sconcertante della copertura mediatica della morte di Benedetto XVI non è tanto la codineria al potente di turno, sia pur defunto, alla quale siamo ormai abituati. E' l'automatismo politicista con cui ci si è lanciati immediatamente nel tiro al bersaglio di papa Francesco, di cui già ci si diverte a immaginare le possibili forme della rinuncia. Nonché l'automatismo giuridico con cui si invoca una legge che regolamenti le dimissioni papali qualora diventassero, da eccezione, prassi. Il tutto in un'alternanza fastidiosa fra incursioni spericolate in campo teologico e gossip terra terra sugli intrighi interni al Vaticano. E il tutto sorretto da un teorema implicito semplice semplice, coerente con i tempi poveri che viviamo: che Benedetto sia stato "il teologo", Francesco "il populista". Dunque evviva il teologo e dalli al populista. Ora, da quando le esequie di Giovanni Paolo II misero in scena l'ultimo tentativo di coprire con la perfezione formale una crisi profondissima, a chiunque si sia cimentato con il tentativo di capire che cosa agiti le acque inquiete del Vaticano è chiaro che le cose sono alquanto più complicate e misteriose di così, perché per quanto secolarizzata la Chiesa ha pur sempre suoi codici interni imperscrutabili da fuori - e del resto, sia le dimissioni di Benedetto sia l'elezione di Francesco sono stati due eventi del tutto imprevisti e imprevedibili. Colpisce tuttavia l'inchino generalizzato a un teologo di cui non dovrebbe essere vietato giudicare il carattere spiccatamente reazionario né il fallimento politico: l'una cosa e l'altra comprensibili anche fuor di teologia, in termini filosofici e, appunto, politici. Lo stesso Ratzinger, del resto, soprattutto prima di diventare papa, era fin troppo disposto e disponibile a polemiche molto laiche e mondane, si vedano tanto per fare due esempi i libri sulle (presunte) radici cristiane dell'Europa scritti con l'allora presidente del Senato Marcello Pera o la polemica astiosa contro la gender theory di Judith Butler. Spero dunque che sia consentita altrettanta schiettezza anche in morte e post mortem. Qui sotto ripropongo un mio commento del 2006 al famoso discorso di Ratisbona, in cui contestavo non la teologia di Ratzinger ma i suoi presupposti filosofici impliciti. Aggiungo, quanto alle sue dimissioni, che ho sempre pensato che la loro ragione vera, e tutt'altro che misteriosa anche se non dichiarata, sia stato il fallimento della sua missione di ricristianizzare l'Europa, missione conseguente a quella di sconfiggere il comunismo portata avanti con successo dal suo predecessore. Su questo punto sono d'accordo con quanto ha scritto Mario Tronti sul Foglio di oggi. Sul resto no, perché filosoficamente a me Ratzinger non pare affatto, come a Tronti, una voce del Novecento bensì, come spiego qui sotto, una voce anti o pre-novecentesca.
Pubblicato da Il Manifesto
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