Così il Governo demolisce la scuola pubblica
di Emiliano Guerrieri e Antonio Giuseppe Pasanisi
Le ultime dichiarazioni del ministro Profumo vanno in una sola direzione: annientare totalmente l’istruzione italiana. Il ministro, infatti, ha affermato che i professori dovranno essere disposti a lavorare sei ore in più alla settimana sempre con lo stesso stipendio, in quanto alla scuola si chiede per l’ennesima volta un contributo di solidarietà.
In un Paese che figura ai primi posti per evasione fiscale, il Governo dei cosiddetti tecnici si è vantato e si vanta tuttora di aver ottenuto ottimi risultati nel contrastare questa vera e propria piaga: ma, a sorpresa, si scopre che l’evasione è altissima come prima (forse un po’ meno di prima) e che, ad esempio, i grandi patrimoni, le grandi ricchezze, i cospicui stipendi dei manager pubblici e privati e le rendite finanziarie non sono state toccate.
Perciò, mentre chi ha sempre evaso continua ad evadere arricchendosi spudoratamente sulle spalle dei contribuenti onesti e di quelli che perdono il lavoro, per risanare i conti dello Stato non si colpiscono gli evasori né si pone fine agli indecenti ed immorali sprechi della politica (stipendi da capogiro, pensioni dorate dopo aver “lavorato” solo poco tempo nel Parlamento e nei vari consigli regionali, ammiraglie blu a non finire, scorte concesse a personaggi alquanto discutibili… e ci fermiamo qui per motivi di spazio…), bensì si finiscono di demolire i settori strategici e vitali per lo sviluppo economico e sociale, come la scuola e gli enti di ricerca, già pesantemente impoveriti. Sulla base di queste considerazioni, non sappiamo se ridere o piangere.
Ciò che il ministro sostiene è veramente grottesco: innanzitutto, con il decreto Gelmini n. 133 del 2008, nella scuola statale sono stati già eliminati ben 150.000 posti e tagliati ben 8 miliardi di euro (queste scelte scriteriate hanno comportato la formazione di classi di 30 e più alunni, la perdita di numerose cattedre e la conseguente riconversione sul sostegno di molti docenti perdenti posto nella propria disciplina, una trascuratezza allarmante per ciò che concerne l’edilizia scolastica); in secondo luogo, ipotizzando un aumento delle ore lavorative, i docenti titolari di cattedra, già ora assai bistrattati e sottopagati, non riuscirebbero nemmeno a fare una didattica di base, visto che questa professione, per chi non lo sapesse, comporta un notevole carico di lavoro domestico (preparazione dell’attività didattica, progettazione e correzione delle verifiche, aggiornamento, espletamento di incombenze burocratiche spesso superflue, ecc.), e considerando che le ore di lezione nelle classi, peraltro numerosissime, richiedono tantissima energia mentale e concentrazione (è bene smentire la barzelletta secondo la quale i docenti italiani lavorano meno rispetto alla media europea: è assolutamente falso!).
Inoltre ci sarebbero effetti occupazionali apocalittici: non solo i docenti precari non lavorerebbero più, ma anche molti di coloro che sono di ruolo perderebbero la propria cattedra. Non va neppure sottaciuta un’altra tendenza caratteristica degli ultimi anni, che è consistita nel dirottare ingenti somme di denaro dalla scuola pubblica - uno degli ultimi baluardi contro il relativismo di valori che permea la società contemporanea - alla scuola privata, dove il reclutamento dei docenti avviene per chiamata diretta secondo un sistema clientelare e dove i diplomi vengono quasi sempre comprati.
Recentemente alcuni autorevoli esponenti del mondo industriale hanno diffuso l’illusoria concezione che il benessere economico di una nazione sia determinato da un aumento della produttività, idea apparentemente condivisibile se non si pretendesse però di perseguirla aumentando le ore lavorative a parità di trattamento economico e indebolendo il potere contrattuale dei dipendenti. Questa corrente di pensiero si è abbattuta come uno tsunami anche sulla scuola. Ma a tal proposito è bene notare come ci sia una notevole differenza tra il lavoro intellettuale, a contatto con ragazzi in età adolescenziale, e quello manuale-operativo. Pertanto sono del tutto destituiti di ogni fondamento i tentativi di equiparare la scuola alla realtà aziendale: infatti la prima è deputata alla formazione di capitale umano, mentre la seconda è preposta alla produzione di beni di consumo.
Di fronte agli scenari sopra delineati, si deduce che il ministro Profumo ha deciso di riportare il Paese indietro di almeno un secolo, quando le persone che sapevano leggere e scrivere si contavano sulle dita delle mani. Ma quale coraggio e quale sfacciataggine si deve avere per chiedere all’istruzione, che ormai somiglia tanto ad un malato in fin di vita, un ulteriore “contributo di solidarietà”? E come stanno reagendo i sindacati e i partiti di sinistra dai quali ci si dovrebbe attendere una durissima opposizione?
All’inizio della nostra attività noi docenti precari, ai quali la spending review ha sottratto persino le ferie maturate e non godute per scadenza dei termini contrattuali, avevamo tanta passione, tanta buona volontà perché amavamo la nostra nobile professione, nonostante tutto. Ora, probabilmente, ce la stanno facendo perdere e ci stanno costringendo a rinunciare a tutto, “obbligandoci”, tra l’altro, a sostenere un assurdo concorso riservato a chi è già vincitore di più concorsi ed in possesso di più abilitazioni, che comporterà la spesa di centinaia di milioni di euro inutilmente, dal momento che noi dovremmo essere immessi in ruolo attraverso le graduatorie ad esaurimento nelle quali siamo già da tempo inseriti. Non si lamentino i nostri politici se i giovani, spesso tacciati di pigrizia e scarsa voglia di lavorare, sono costretti a scappare all’estero abbandonando il proprio Paese, per il cui sviluppo culturale ed economico potrebbero contribuire egregiamente.
Dinanzi a questa barbarie, la parola d’ordine è: vergogna!
Fonte: MicroMega
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