Corruzione: historia magistra vitae?
di Maria Pellegrini
«Ho portato in tribunale un uomo che vi desse la possibilità di ristabilire nell’amministrazione della giustizia la stima perduta, di riconquistare il favore del popolo romano, di dare soddisfazione alle nazioni straniere, un uomo che è stato dilapidatore del denaro pubblico […] rovina e flagello della provincia di Sicilia». Chi è l’imputato di questo processo, l’uomo corrotto, tanto simile a politici e amministratori che in questi giorni affollano i nostri quotidiani e gli schermi televisivi con rivelazioni sorprendenti e intercettazioni telefoniche, indecorose testimonianze della brutalità dei loro animi e delle loro azioni?
Si tratta di Verre, ex governatore della Sicilia che aveva sfruttato la provincia con incredibile rapacità. Terminato il suo mandato, nel gennaio del 70 a. C., ben sessantaquattro città dell’isola, saccheggiate e stremate dalla sua cupidigia, decisero di ricorrere al Foro Romano per intentare contro di lui una causa per corruzione e concussione affidando a Cicerone il patrocinio dell’accusa. Il famoso oratore, rivolgendosi ai giudici, sottolinea l’importanza politica del processo contro questo “pirata della giustizia nelle cause fra cittadini” contro questo avido collezionista di preziose opere d’arte che “in tutta quanta la Sicilia non ha lasciato nulla in casa di nessuno, neppure in quella degli ospiti, nulla nei luoghi pubblici, neppure nei santuari, nulla che appartenesse ai Siciliani o ai cittadini romani, in una parola nulla che cadesse sotto i suoi occhi o che risvegliasse la sua cupidigia, nulla di privato o di pubblico.”(Contro Verre, IV, 2) Cicerone mostrò con metodo, e con precisi riferimenti ai testimoni e ai documenti, che nei suoi tre anni in Sicilia Verre aveva ammassato l’enorme somma di 40.000.000 di sesterzi. Per Cicerone il processo offriva al Senato l’opportunità di riacquistare credito di fronte all’opinione pubblica, mediante una condanna esemplare che ristabilisse la fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia. Il processo finì con un verdetto di condanna. La vicenda diede un energico impulso alla riforma dei tribunali e del sistema delle giurie. Il monopolio delle giurie da parte dei senatori fu abolito e la loro rappresentanza in esse fu ridotta di un terzo.
Verre costituiva un caso tutt'altro che isolato, i governatori delle provincie e gli alti gradi dell'amministrazione periferica spesso approfittavano della propria posizione per danneggiare le popolazioni soggette a Roma. Era costume diffuso depredare le province dei loro tesori d’arte e arricchirsi con ogni mezzo lecito e illecito che consentisse loro di ripagarsi le enormi spese sostenute per la candidatura. Dalla fine del II sec. a.C. si scatenò una vera e propria caccia al voto, ottenuto con ogni mezzo anche attraverso la “clientela”. Il cliens era quel cittadino che, per la sua posizione svantaggiata all'interno della società, si trovava costretto a ricorrere alla protezione di un patronus in cambio di svariati favori. Il vincolo clientelare era un’arma potente in mano agli aristocratici per subordinare i ceti inferiori, ed un forte ostacolo all’esercizio della giustizia, obbligando a una specie di omertà sia il patrono sia il cliente. Era inoltre un’eccellente base di manovra politica e riserva di voti assicurati.
La corruzione politica non è dunque un fenomeno dei nostri giorni, è sempre esistito in varie forme e con varia gravità. Ci sono eventi di grande attualità che hanno consonanze con vicende e personaggi di un passato remoto. Nell'antica Roma tale fenomeno ebbe dimensioni anche superiori a quelle dei nostri tempi. Gli storici testimoniano quante fossero frequenti corruzione elettorale, brogli, concussione, peculato, bustarelle, appalti e tangenti, vendita di posti e di cariche, corruzione dei giudici. Si acquistavano voti, cariche pubbliche inferiori e alte, posti nell’amministrazione e nell’esercito. Fu proprio questa vena corruttiva a decretare il declino della civiltà romana.
Verrebbe allora da esclamare: Niente di nuovo sotto il sole e facilmente scivolare nel qualunquismo, nell’astensionismo, nell’allontanamento dalla politica e dalla partecipazione, nella mancanza di fiducia nelle istituzioni pubbliche, nei partiti, constatando che in ogni età gli uomini sono preda dell’ingordigia e il denaro domina su ogni altro principio e valore. Istintivamente siamo indotti a dubitare della nota locuzione latina Historia magistra vitae, tratta da una frase pronunciata da Cicerone nel De Oratore per affermare la fondamentale importanza della storia (testis temporum, lux veritatis) e la sua funzione ammaestratrice. Si deve invece combattere questa tentazione di assenza e lontananza da ciò che riguarda le nostre vite. Sarebbe forse necessaria un’opposizione intellettualmente e culturalmente energica, così da coinvolgere le coscienze assopite o ipnotizzate, e da estirpare i gangli più segreti di ogni tipo di malgoverno, risuscitando così le energie dei ceti e delle classi più strettamente legati al duro lavoro quotidiano, e di quanti sentono il dovere di pensare al futuro dei propri figli, dei quali oggi è così incerta la sorte che stiamo loro preparando.
A ogni scandalo di affari illeciti, si torna a parlare della questione morale, oggi come in passato, e si tenta di arginare, di porre un freno. Per tornare alla romanità, la lex Calpurnia, nel 149 a.C., sanzionava il crimen repetundarum, cioè l’estorsione, e la captazione di doni da parte di magistrati che li sottraevano alla comunità. La legge forniva ai provinciali gli strumenti giuridici per recuperare quanto i governatori romani avevano loro ingiustamente estorto. Successivamente fu la volta della Lex Cornelia de repetundis, nell’81 a C. , integrata dalla Lex Iulia de repetundis, nel 59 a.C., per definire dettagliatamente i reati di concussione e di estorsione, fissando un tetto alla somme in denaro che i magistrati romani potevano percepire nell'adempimento delle loro funzioni. Si stabiliva inoltre che i registri fiscali dovessero essere tenuti in triplice copia, una delle quali doveva essere inviata a Roma, e si fissava la pena del reato, che era di solito pecuniaria (restituzione del triplo o del quadruplo della somma illecitamente guadagnata) integrata, nei casi più gravi, con l'esilio.. Poiché la compravendita dei voti era attuata anche con l’offerta di banchetti, di posti a teatro, di giochi gladiatori, Cicerone fece promulgare una legge che vietava di organizzare giochi gladiatori due anni prima della candidatura a una carica.
La storia può quindi insegnarci a riparare agli errori, ma soprattutto a prevenirli per non intervenire soltanto quando il male è ormai in atto e virulento a tal punto da non potersi più estirpare. Sembra molto attuale l’invettiva di uno storico di età cesariana, Sallustio, forse un po’ incline a forzare i toni e le tinte della sua denuncia, tratta dall’orazione contro Catilina (XX,7-13): Dopo che lo Stato cadde in assoluto potere di pochi privilegiati…tutti noialtri cittadini onesti e valorosi, nobili e non nobili, fummo tenuti in conto di anonimo volgo, senza credito né autorità... E dunque favore, potenza, cariche, ricchezza, tutto è presso di loro o dove essi vogliono; a noi hanno lasciato rischi, delusioni, indigenza…Chi dei mortali, che abbia indole virile, può tollerare che ad essi avanzino ricchezze da sperperare costruendo sul mare e livellando montagne, mentre il nostro patrimonio è insufficiente persino allo stretto necessario? che essi edifichino palazzi uno dopo l’altro, mentre noi non possiamo trovare in nessun luogo un tetto per le nostre famiglie?
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