È passato un mese dall’inizio della rivolta popolare contro il governo Duque – una ricorrenza celebrata ieri con marce, manifestazioni e attività artistiche e culturali – e non si intravede all’orizzonte alcuna via di uscita.

Benché fosse attesa già martedì, la firma dell’accordo preliminare destinato a offrire «garanzie per l’esercizio della protesta», permettendo così l’avvio del negoziato vero e proprio, è stata ripetutamente posticipata.

INTANTO IL GOVERNO ha posto come condizione per sedersi al tavolo delle trattative con il Comité del paro la rimozione dei blocchi stradali, ritenendo insufficiente l’apertura di corridoi umanitari per salvaguardare la vita, la salute e l’alimentazione del popolo colombiano.
Poiché tali blocchi, ha spiegato il consigliere presidenziale Emilio Archila, «ostacolano gravemente l’approvvigionamento in intere regioni del paese», per il governo è un «punto non negoziabile» garantire «i diritti anche del resto dei colombiani».

Si tratta, tuttavia, di una richiesta difficile da soddisfare, sia perché il Comité del paro non risponde di tutti gli attori della protesta – soprattutto dei giovani della prima linea che sono i veri protagonisti di blocchi e barricate -, sia perché comporterebbe la rinuncia alla sua migliore arma di pressione.

Un’arma quanto mai necessaria di fronte all’evidente tecnica dilatoria del governo, il quale punta presumibilmente sia a logorare i manifestanti che a sottrarre loro consenso, oggi all’89%, facendo leva sul pesante impatto economico dei blocchi stradali.

In mezzo a questo braccio di ferro, la repressione dilaga, non risparmiando neppure le brigate mediche, i giornalisti e i difensori dei diritti umani: secondo i dati dell’ong Temblores, dal 28 aprile al 24 maggio si sono registrati 43 omicidi presumibilmente riconducibili alle forze di sicurezza, 3.155 casi di violenza da parte della polizia, 1.388 arresti arbitrari, 22 casi di violenza sessuale e 46 di lesioni oculari.

QUANTO SIA GRANDE L’ORRORE lo chiarisce bene il rapporto della Commissione interecclesiale di Giustizia e pace e di altre organizzazioni per i diritti umani, le quali affermano di aver «ricevuto a partire dal 13 maggio terribili resoconti sul comportamento e le pratiche della polizia, tali da ferire la coscienza dell’umanità», esigendo l’apertura immediata di «un’indagine giudiziaria indipendente ed efficace».

Tra le denunce raccolte, quelle di possibili fosse comuni nelle aree rurali di Buga e Yumbo, dove «sarebbero stati gettati i corpi di molti giovani di Cali»; di esecuzioni extragiudiziali di manifestanti di cui è stata denunciata la scomparsa – 120 le persone di cui non si hanno più notizie secondo i dati dell’Università del Valle -; dell’esistenza di centri di tortura nel quartiere esclusivo di Ciudad Jardín, dove il 9 maggio gente altolocata aveva sparato contro la minga indigena.

SORDO A OGNI DENUNCIA, il Senato ha tuttavia votato contro la destituzione del ministro della Difesa Diego Molano, indicato dall’opposizione come «uno dei responsabili politici della catena di crimini di lesa umanità perpetrati dalle forze dell’ordine a partire dal 28 aprile». 79 i senatori che, come ha denunciato il leader progressista Gustavo Petro, si sono resi complici del ministro, applaudendo le sue misure nei confronti di «incendiari ed estremisti», contro gli appena 31 che hanno votato a favore della mozione di censura, sostenuta a gran voce dai manifestanti in tutto il paese.

E mentre la Commissione interamerica per i diritti umani è tornata a sollecitare il recalcitrante governo Duque perché autorizzi una visita nel paese, il dirigente sociale argentino Juan Grabois, recatosi in Colombia nel quadro di una Missione internazionale di solidarietà, ha denunciato di essere stato aggredito dalle autorità migratorie all’aeroporto di Bogotá ed espulso dal paese in quanto «minaccia alla sicurezza dello stato».

 

il manifesto 29.05.2021

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