La classe non è acqua (o forse sì)
di Rosa Rinaldi, Luca Nivarra
Il governo Monti, compagine di professori parlanti inglese, banchieri, aristocratici artisti del baciamano, e amici del Vaticano, varca elegantemente il Rubicone completando l'opera di seppellimento del risultato referendario avviata già ai primi di agosto con l'art. 4 del d.l. n.138/2011. I primi trentatre commi di questa disposizione, introdotta dal molto meno polite governo Berlusconi avevano ripristinato, sostanzialmente, la disciplina contenuta nell'art. 23 bis del "decreto Ronchi" abrogato dal referendum 12/13 giugno 2011, mentre il trentaquattresimo comma, epitome ineguagliabile della millenaria vocazione italica all'imbroglio, escludeva dall'applicazione della vecchia/nuova disciplina proprio il servizio idrico integrato: con ciò volendo rendere omaggio alla volontà popolare, come se l'art. 23 bis non avesse ad oggetto tutti i servizi pubblici locali.
È facile intuire che un governo con il pedigree di quello attualmente in carica non poteva sopportare una simile bruttura: e così, stando almeno alla bozza del decreto sulle liberalizzazioni in circolazione da un paio di giorni, i "tecnici", grazie al prezioso apporto dei loro tecnici (quasi tutti a libro paga delle public utilities già quotate in borsa) hanno provveduto a rimediare cancellando l'esito del referendum anche con riguardo al settore idrico. La tecnica adottata, qui, però, sembrerebbe essere diversa e più raffinata, come del resto si conviene ad un imbroglio tecnico: non più la pura e semplice riproposizione del "Ronchi" ma una maligna aggiunta all'art. 114 del Testo Unico degli Enti Locali che inibisce il ricorso all'azienda speciale per i servizi di interesse generale a rilevanza economica.
La mossa vorrebbe essere astuta ma, in realtà, al di là dell'apparenza, non si discosta molto dalle grossolane monellerie dei berluscones: perché, per dirla molto brevemente, anche in questo caso si reintroduce una norma già cancellata dall'ordinamento giuridico, ossia l'art. 35 l. n.448/2001 che, come rilevato dalla Corte costituzionale nella sua importante sentenza n. 325/2010, aveva escluso il ricorso alla gestione diretta in economia o tramite azienda speciale dei servizi pubblici locali.
Tuttavia, poiché l'art. 23 bis aveva introdotto una disciplina organica e tendenzialmente completa dei servizi pubblici locali, deve ritenersi che tutte le disposizioni precedenti fossero anche tacitamente abrogate: e poiché, ancora, la Corte costituzionale, nell'ammettere il primo dei quesiti aveva chiarito che la cancellazione per via referendaria dell'art. 23 bis non avrebbe comportato la reviviscenza della normativa precedente, è evidente che il legislatore, reintroducendo una regola nella sostanza identica all'abrogato art.35 l. n.448/2001, finisce per aggirare l'esito del referendum.
Ma la truffa ai danni della volontà popolare è ancora più macroscopica ove si consideri che, come bene aveva chiarito sempre la Corte costituzionale, l'uscita di scena dell'art. 23 bis avrebbe determinato la pura e semplice applicazione del diritto comunitario, ivi incluso l'art.106, comma 2, del Trattato che, appunto, legittima la possibilità di un ricorso alla gestione diretta del servizio pubblico locale. In altri termini, il quadro normativo riveniente dal positivo esito della consultazione di giugno risultava perfettamente conforme alla disciplina dell'Ue: volerlo rendere più restrittivo, come se il referendum non si fosse celebrato, è, quanto meno, un atto politicamente assai scorretto e in palese contrasto con la volontà popolare.
Insomma, come avevamo detto sin dal primo giorno dell'insediamento del governo "tecnico" nulla sarebbe cambiato rispetto al biennio berlusconiano, se non per il passaggio da una compagine sotto ricatto della finanza internazionale ad una che ne è espressione immediata e diretta: entrambe accomunate da una feroce volontà privatizzatrice e da un disprezzo totale per la democrazia.
Fonte: Il Manifesto
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