di Antonio Venditti

La commissione Lavoro del M5s della Camera dei deputati, con la collaborazione del sociologo del lavoro Domenico De Masi, ha promosso “Lavoro 2025”, uno studio scientifico a cui hanno partecipato undici studiosi del lavoro, appartenenti a diverse discipline.

“Lavoro 2025” è la prima ricerca che descrive con metodo scientifico come cambierà il lavoro nel prossimo decennio. Uno studio unico nel suo genere che riflette sugli effetti del progresso tecnologico sull'occupazione, sulla sorte dei giovani che non studiano e non ricercano nemmeno un lavoro e su come sia possibile conciliare produttività e reddito di cittadinanza.

“Per progettare qualsiasi futuro, e in particolare quello del lavoro - spiega Domenico De Masi - occorre prevederlo”.

A tale necessità intende rispondere proprio questa ricerca, concepita per fornire una base scientifica alle proposte di legge. Lo studio inquadra tutte le questioni fondamentali: dall’equilibrio tra domanda e offerta all’evoluzione del mondo del lavoro nel prossimo decennio.

Sull’argomento abbiamo intervistato la deputata del Movimento Cinque Stelle Tiziana Ciprini, componente dell’XI Commissione Lavoro pubblico e privato, in possesso di una laurea in psicologia del lavoro e delle organizzazioni.

Onorevole Ciprini, “Lavoro 2025” rappresenta la prima ricerca previsionale sugli scenari futuri del lavoro in Italia. Come è nata l’idea?

“La ricerca rappresenta il coronamento di un percorso iniziato il giorno in cui, dopo un interessante seminario del professor Domenico De Masi condividemmo, insieme ai colleghi della commissione Lavoro alla Camera, il bisogno di prevedere per programmare, ovvero di analizzare a fondo le grandi trasformazioni in corso e di dotarci di una solida base su cui sviluppare politiche del lavoro non improvvisate, ma all’altezza delle sfide e capaci di incidere radicalmente. A maggio di quest’anno, dopo due anni dall’inizio dei lavori, si è finalmente concretizzato ‘Lavoro 2025’, il volume che racchiude i contenuti di questa prima e unica ricerca scientifica, condotta con metodo Delphi, sul futuro del lavoro in Italia. E proprio a questa necessità intende rispondere ‘Lavoro 2025’ che, grazie al contribuito di undici prestigiosi esperti coadiuvati dallo stesso professor De Masi, inquadra tutte le questioni fondamentali al centro di quel delicato meccanismo di equilibrio tra domanda e offerta che è il mondo del lavoro”.

Dallo studio emerge che la tecnologia creerà 13 milioni di nuovi posti di lavoro, ma ne distruggerà 22 milioni. Quali sono i settori maggiormente a rischio?

“Nel mirino di questa nuova rivoluzione industriale non ci sono solo i lavori manuali: i robot sono destinati a invadere le fabbriche ma anche banche, supermercati, sale operatorie e il settore dei servizi in genere (autisti, baristi e perfino medici e infermieri). Anche i lavori intellettuali non sono esenti dal rischio di essere soppiantati: di recente, è stato dimostrato che i robot sarebbero in grado di scrivere un articolo di cronaca. Del resto, basta guardarsi intorno per rendersi conto che, per alcuni lavori, il processo è già iniziato: pensiamo, ad esempio, alle casse automatiche nei supermercati o al telepass che ha sostituito gli addetti ai caselli autostradali. Non necessariamente ci sarà un aumento della disoccupazione, ma si tratterà di un forte cambiamento del mercato del lavoro: resisteranno i lavori altamente qualificati e creativi, nasceranno di nuovi come l’addestratore di robot o il creatore di universi digitali”.

Nelle scuole italiane viene fornita un’adeguata istruzione digitale per fare fronte alle nuove esigenze di mercato?

“Siamo un Paese con una forte propensione all’economia digitale ma che, purtroppo, fatica a crearsi le competenze necessarie a supportarla: manca una strategia di lungo periodo che coinvolga aziende e sistema formativo, una visione d’insieme che coordini i percorsi della trasformazione digitale. Mentre il mercato del lavoro promette una rapida evoluzione, l’istruzione italiana rischia di rimanere indietro, senza riuscire a fornire le figure professionali richieste dalle aziende. L’automazione che stiamo vivendo non segue la logica incrementale alla quale eravamo abituati e che ci aveva garantito il tempo necessario ad adattarci elaborando nuove competenze. I computer stanno dimostrando di emulare le nostre capacità e, in più casi, persino a superarle ad un ritmo sconvolgente. La scuola, pertanto, non può essere inerme di fronte a certi stravolgimenti professionali, anche perché l’istruzione e la formazione non hanno soltanto il compito di preparare i giovani per il mercato del lavoro, ma devono essere in grado di contribuire ad un più ampio sviluppo personale degli individui, formando cittadini attivi, indipendenti e preparati ai cambiamenti chestanno avvenendo all’interno della società moderna”.

Contro la disoccupazione, in ‘Lavoro 2025’ viene teorizzataa nche l’idea di “lavorare meno, lavorare tutti”. Un’utopia o una possibilità per il futuro?

“Può sembrare uno slogan, in un certo senso lo è, ma di certo spinge all’idea di inventarsi una protesta tutta nuova per invertire una situazione che, di fatto, vede l’Italia sprofondare nel baratro di una disoccupazione allarmante. Bisogna chiedersi perché, con l’aumento della tecnologia, negli altri Paesi l’orario sia stato ridotto, mentre da noi no. In Italia si lavora mediamente 1.800 ore all’anno circa, in Francia invece 1.500 ore e in Germania 1.400. Questo è il motivo per cui in Francia la disoccupazione è al 9 per cento e in Germania al 4. Senza una riduzione dell’orario di lavoro, accanto ai 23 milioni di occupati che lavorano 40 miliardi di ore all’anno, avremmo sempre 6 milioni di disoccupati e inoccupati. Se lavorassimo con l’orario francese avremmo circa 4 milioni di posti in più, con l’orario tedesco 7 milioni di lavoratori in più.

Per risolvere il problema, basterebbe togliere a ciascuno quattro ore alla settimana, portando l’orario da 40 a 36 ore. Tutte le fallimentari soluzioni sperimentate finora dai governi, come i voucher e il Jobs Act, celano l’intento di ampliare a dismisura un esercito di riserva professionalizzato e disponibile a entrare e uscire dal mondo del lavoro, secondo le fluttuazioni del mercato. Invece, bisogna avere il coraggio di affrontare il problema in tutta la sua gravità: la disoccupazione non solo non diminuirà, ma è destinata a crescere. Basti guardarsi intorno: ieri, le macchine sostituivano l’uomo alla catena di montaggio, domani software sempre più sofisticati lavoreranno al posto di medici, dirigenti e notai. Insomma, il progresso tecnologico ci procurerà sempre più beni e servizi senza impiegare lavoro umano. La soluzione è trovare criteri radicalmente nuovi per ridistribuire in modo equo la ricchezza”.

Il reddito di cittadinanza può essere la soluzione alla mancanza di lavoro in Italia?

“Il reddito di cittadinanza è una misura sociale che esiste in tutta Europa, a parte in Italia, in Grecia e in Ungheria. Il M5S ha presentato al Senato una proposta di legge che garantisce 780 euro a 10 milioni di italiani attualmente al di sotto di questa soglia. È una misura di sostegno al reddito, finalizzata al reinserimento nel mondo del lavoro e nel contesto sociale, quindi un vero e proprio ‘riattivatore’, in grado di far ripartire i consumi. Il reddito di cittadinanza permetterebbe, inoltre, alle persone di investire su se stesse, per esempio con corsi di aggiornamento per il lavoro o per lo studio. Insomma, un modo per equilibrare la qualità della vita di tutti i cittadini, riducendo le disparità. La nostra proposta costa quasi 17 miliardi di euro di cui 14,9 miliardi da destinare al sostegno economico (dato avvalorato dall’Istat) e 2,1 miliardi per implementare le politiche attive del lavoro, per rafforzare i Centri per l’Impiego, per la creazione di nuova impresa e di start up innovative e per incrementare il fondo per l’abitazione. Per quanto riguarda le coperture economiche, abbiamo proposto la riscossione delle multe delle case slot, il taglio netto alle spese militari, ingenti tagli ai costi della politica ed altre decine di voci, tutte regolarmente presentate all'Ufficio Bilancio, confermando la fattibilità economica del progetto a 5 Stelle”.

Il rischio non è quello di creare una generazione di ‘oziosi’?

“Il paradigma in cui siamo stati educati si basa sul principio che per mangiare bisogna lavorare, che si considera lavoro solo un’attività retribuita, che se si perde il posto non si fa più profitto, non si ha più dignità, valore, diritto di vivere. Il concetto di reddito è quindi legato a quello di posto di lavoro.

Di politiche redistributive del reddito ne parlano persino i businessman della Silicon Valley, semplicemente perché si sono accorti che, sparendo i posti di lavoro, sono scomparsi anche i consumatori che non hanno più un reddito per poter acquistare i prodotti e i servizi. Martin Ford, per esempio, propone l’introduzione di un reddito minimo di base, che potrebbe avere un ‘effetto Peltzman’ nella società.

Tale effetto prende il nome da Sam Peltzman, professore dell'Università di Chicago che si occupa di sicurezza stradale, secondo il quale troppi dispositivi e norme di sicurezza provocano più incidenti e lesioni a causa del senso di sicurezza che ci danno, invece che diminuirli.

A livello psicologico, infatti, quando ci sentiamo protetti, siamo più propensi a fare scelte rischiose. Ad esempio, i caschi potrebbero portarci a una guida più spericolata perché ci sentiamo sicuri quando li indossiamo. La stessa cosa, secondo Ford, può avvenire col reddito di base: se ci sentiamo al sicuro rispetto al soddisfacimento dei bisogni più immediati, grazie alla disponibilità di un reddito garantito, potremmo scoprirci più intraprendenti, saremmo portati a sperimentare di più, a rischiare di più, insomma a non essere oziosi.

La natura dell’uomo è orientata più all’attività che alla pigrizia e che liberare l’essere umano dall'assillo del lavoro per vivere potrebbe liberare la mente e la creatività umana, verso un nuovo Rinascimento”.

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