di Vasco Cajarelli - da Micropolis.

Abbiamo alle spalle anni di sconquassi. Ce lo diciamo da tempo, ormai. Però c’è un problema che pesa come un macigno, e riguarda noi. Sì, perché a volte sono state sballate anche le analisi; ma pure nei casi in cui le analisi sono state azzeccate, difficilmente ad esse sono seguite pratiche conseguenti. Quel macigno ci relega di fatto all’inazione, all’immobilismo. A un’inerzia che ci fa agire come se fossimo ancora a tre-quattro decenni fa mentre nel frattempo si è sgretolato un mondo, e quelle che sembravano certezze consolidate sono evaporate come rugiada al primo sole. Tutto questo riguarda noi. E quando dico noi mi riferisco alla sinistra istituzionale, certo. Ma parlo per prima all’organizzazione della quale faccio orgogliosamente parte, la Cgil di Perugia. Riguarda noi perché così facendo veniamo meno al ruolo per il quale siamo venuti al mondo: la difesa di chi sta sotto, di chi è costretto a lavorare per vivere, di chi è relegato ai margini dalla disoccupazione e da quell’autentico mostro mangia vite che è il precariato, vero morbo del nostro tempo.

Per superare l’inerzia che ci immobilizza dovremmo essere capaci di recuperare almeno una delle lezioni che ci ha impartito il femminismo, quella secondo la quale non c’è trasformazione del mondo che non parta da una trasformazione di sé, delle proprie storture, del proprio considerare naturali fenomeni che di naturale non hanno nulla e sono invece il frutto di rapporti di forza. Cerco di spiegarmi. Sappiamo perfettamente tutta una serie di cose: che c’è in questa regione e nella provincia di Perugia che ne rappresenta i due terzi un tasso di disoccupazione che spinge i nostri giovani a emigrare; che secondo tutti gli indicatori siamo ormai una regione più assimilabile al Sud che al Nord, a differenza di quanto è sempre avvenuto. Sappiamo che negli anni della crisi le disuguaglianze si sono accresciute: i ricchi sono diventati ancora più ricchi e i poveri hanno se possibile visto peggiorare le loro condizioni; sappiamo che nei posti di lavoro si è spesso umiliati, costretti a ingoiare condizioni economiche e di svolgimento delle proprie mansioni pressoché inaccettabili, a volte peggiorative del proprio status precedente; sappiamo che il contratto che per definizione chiamiamo tipico, quello a tempo pieno e indeterminato, è diventato una chimera ormai almeno per un paio di generazioni: cancellato di fatto dal Jobs act e da una pratica che vede nelle nuove assunzioni di anno in anno una quota sempre maggiore occupata da lavori a tempo parziale e determinato, con contratti spesso peggiori rispetto a quelli del collega di lavoro che lavora al tuo fianco; sappiamo del divario salariale che penalizza le donne e del fatto che spesso laureati e diplomati sono costretti ad accettare lavori che prevedono mansioni ben al di sotto delle loro competenze. Sappiamo che ci sono persone a rischio di povertà nonostante lavorino, il che testimonia di quanto inadeguati siano i salari per condurre una vita appena decente. Sappiamo anche che ci sono false partite iva; lavoratori “autonomi” solo perché così vuole il datore, che si libera del peso di un’assuzione scaricando i costi su chi lavora per lui. Tutte queste cose le sappiamo, le documentiamo, le denunciamo. Ma non sappiamo andare oltre. Ciò rende la situazione drammatica. Per questo è necessario un cambio di passo.

Le condizioni appena elencate sono state il terreno di coltura che ha portato in prima battuta alla sorda marcia della guerra tra poveri; una sorta di tam tam alienante e mortifero amplificato da demagoghi senza scrupoli a cui siamo ancora ben lontano dall’essere capaci di opporre una nostra voce, chiara, netta, comprensibile. Ciò ha portato alla divisione di chi invece per nascita e condizione si trova dalla stessa parte. Abbiamo cioè assistito pressoché inerti a un rovesciamento: l’identificazione del nemico in chi sta sotto di noi, piuttosto che in chi estrae profitto per sé dal nostro lavoro e prosciugando le risorse del pianeta. Ciò è accaduto per anni in cui abbiamo continuato nelle nostre pratiche ormai fuori tempo, incuranti come i proverbiali ballerini sul Titanic che affondava. E ciò, unito al progressivo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, ha prodotto un incupimento e un incattivimento sociale che hanno portato a rendere macroscopico il rovesciamento nell’esito delle elezioni regionali dell’ottobre scorso, figlio legittimo di scelte sbagliate, di lunga durata, e di inerzie a diversi livelli.

 

Bene (anzi, male). Di tutto questo travaglio sociale non c’è praticamente traccia nel nostro agire. La Cgil di Perugia ha fatto praticamente da spettatrice a tutto questo. Così oggi ci troviamo pressoché afoni di fronte a una giunta regionale e a una giunta municipale perugina che minacciano di mettere in discussione il criterio di assegnazione delle case popolari o di privatizzare la sanità, o di aumentare i canoni di affitto (ricordo che stiamo parlando di alloggi che per definizione vanno assegnate a persone e nuclei familiari bisognosi). Così ci troviamo di fronte a un taglio dei trasporti pubblici che minaccia in primo luogo i ceti popolari che dovremmo avere come stella polare della nostra azione. Così, insomma, ci troviamo oggi che alle peggiori condizioni del mondo del lavoro, si saldano pericolosamente peggioramenti a livello sociale. Questo dovrebbe portarci dritti a una conclusione: la Cgil di Perugia deve porsi alla guida di un movimento che sappia giocare su più piani. Da un lato, occorre ritrovare lo spirito vertenziale dei tempi migliori, rivendicare cioè maggiori salari, migliori condizioni di lavoro, saper unire le forze di chi adesso è diviso. Dall’altro, occorre anche lavorare per costruire un’opposizione sociale. Non per posa radicale o per partito preso. Ma perché casa, trasporti, salute, scuola, insomma, il welfare che indietreggia sotto i colpi della crisi sono diritti sacrosanti della nostra gente, e ridurre la nostra azione, come di fatto è oggi, alla contrattazione aziendale, è come curare un cancro con la tachipirina. C’è un’aggressione a diritti e istituti che hanno a che fare con le esistenze di decine di migliaia di persone, continuare a far finta di nulla è delittuoso nei confronti perfino della nostra storia.

Come può la Cgil di Perugia, oggi così intorpidita da non proferire parola neanche di fronte a un presidente di Consiglio comunale citato da esponenti della ‘ndrangheta come un loro uomo, provare a fare una cosa del genere? Trasformando se stessa. Prendendo atto che è necessario un cambio di passo che dovrebbe essere l’avvio una profonda riorganizzazione. E ciò ha strettamente a che fare col nostro modo di presentarci. Dobbiamo dare occasione alla nostra gente, cioè a lavoratori, precari, sfruttati di ogni provenienza, di poter tornare a credere in noi. Ma per fare questo occorre che noi dimostriamo di sentire la sofferenza, di percepire il disagio, di tradurlo in pratiche che non cogliamo più, spesso stretti come siamo nelle nostre stanze in una dimensione più impiegatizia (con tutto il rispetto per gli impiegati) che di trasformatori sociali come dovremmo essere. Dovremmo saper unire sobrietà, comprensione, studio, passione autentica ed efficacia dell’azione. Solo questo ci porterà a una riconquista di autorevolezza presso la nostra gente, sempre più attratta dalle sirene di demagoghi che puntano solo a prendere voti senza saper dove mettere mano per arginare davvero la sofferenza sociale.

L’esempio ce l’abbiamo in casa. Abbiamo un segretario, Maurizio Landini, in grado di saper parlare facendosi comprendere; di essere autorevole perché inattaccabile come persona e come sindacalista; serio finanche dal punto di vista di come si presenta formalmente, e la forma nel nostro caso è, dev’essere, sostanza. In questo senso è come se la riforma della Cgil fosse già partita dall’alto. Ora occorre che arrivi in basso. E perché questo avvenga dobbiamo cambiare noi stessi. Cambiare passo, altrimenti smarriamo definitivamente il senso del nostro stare al mondo.

Condividi