C'è ancora domani, che già di per sé è un titolo consolatorio, ha messo d'accordo tutti, pubblico e critica, come raramente succede - soprattutto per un film italiano.
E si tratta di un film in bianco e nero, in dimessa veste neorealista, che tratta un tema pesante come la violenza domestica e di genere; non insomma - con rispetto parlando - di un film di Checco Zalone o di Aldo Giovanni e Giacomo, di quelli che mettono d'accordo tutti sul piano di una comicità schietta con una problematicità tematica quasi sempre ridotta ai minimi termini o trattata comunque attraverso toni comico-satirici.
I pregi del film sono già stati messi ampiamente in rilievo: il riallacciarsi ad una delle più gloriose eredità del cinema italiano (il neorealismo appunto, che qui già si vena di commedia, per quanto nera); la capacità di raccontare un tema grave con leggerezza; le invenzioni linguistiche (la violenza girata come un musical); l'uso di canzoni contemporanee; la capacità di riallacciare una vicenda individuale ad un cambiamento epocale della storia e della società italiana, ecc.
Ma le reazioni che ho letto, anche sui social, con la loro forte componente affettiva ed emozionale, mi fanno pensare che il film abbia suscitato qualcosa di più che l'apprezzamento per un bel film, e che abbia invece intercettato qualche bisogno più profondo del pubblico italiano.
Da una parte c'è indubbiamente la personalità di Paola Cortellesi, che non è solo una show woman eccezionale, che è riuscita in tutti i campi in cui si è cimentata (comica, cantante, conduttrice, attrice televisiva, cinematografica e teatrale, sceneggiatrice, regista di videoclip, ecc.), ma che ben può rappresentare l'emblema della donna contemporanea realizzata: coraggiosa, capace, intelligente, emancipata, artefice del proprio meritato successo; e tutto questo dando di sé un'immagine sempre sorridente, positiva, ironica ed autoironica. Proprio questa sua autorevolezza le permette di mettere qui in gioco con altrettanta credibilità una componente più dolente e drammatica – con il viso stesso esibito nella sua nudità e spigolosità -, nel ruolo di una casalinga-lavoratrice-moglie-badante-madre di famiglia, vittima, in ogni e ciascuno di questi ruoli, di una sopraffazione di origine patriarcale.
Ma forse c'è qualcosa di più, e ho pensato che uno delle cause “nascoste” più rilevanti nel determinare il successo film sia proprio quella che è in realtà più eclatante e sotto gli occhi tutti, ovverossia la sua esibita matrice neorealistica.
C'è ancora domani è lontanissimo dal cinema del reale così come lo concepiamo oggi, e il suo punto di partenza è quindi un modello squisitamente cinematografico e dichiaratamente finzionale.
Ma forse il pubblico, tra le mille e mille proposte che il cinema e la televisione gli offrono, a volte in modo frastornante, nel campo della fiction, proprio di questo aveva inconsciamente bisogno: di un film diverso perché simile a quello lontano nel tempo, apparentemente dimenticato ma radicato nell'inconscio collettivo e di ciascuno di noi (persino, forse, degli spettatori più giovani); di una proposta dall'apparente semplicità e freschezza proprio perché assimilata ad un cinema passato (ri)nascente e quasi primigenio.
Un film che riparte quindi dalle origini della storia (perché tutto ciò che sta prima del neorealismo appare davvero come preistoria), da un paese e da un cinema che deve ricostruirsi dalle proprie macerie materiali e morali, e perfino estetiche: C'è ancora domani riparte dal bianco e nero e grigio in appartamenti seminterrati; dai cortili popolari dove si parla e si sparla e dove i bambini corrono e schiamazzano; dagli uomini in canottiera e dalle donne in parannanza; da un epoca in cui la Repubblica italiana neppure esisteva.
Nella musica è successo con i Måneskin, che hanno resuscitato dal tempo dei vinili l'energia basica del rock, intercettando un bisogno evidentemente latente, una nostalgia collettiva – dopo tutte le declinazioni di pop, rap, trap, techno, latino, e chi più ne ha più ne metta - che magari nessuno ancora sapeva di provare. E come i Måneskin resuscitano il rock, ma con la malizia e il bagaglio tecnico e musicale di chi fa musica oggi, e non nel negli anni '70 del secolo scorso, così Cortellesi reinterpreta il neorealismo e il cinema degli anni '40-50, ma iniettandovi una sensibilità tematica - etica e sociale - contemporanea e con una consapevolezza linguistica aggiornata ai tempi.
Così ad esempio usa il ralenti dove il neorealismo nemmeno se lo sarebbe immaginato; fa una lunga carrellata circolare intorno a Delia e Nino, per mostrare la loro infatuazione, come Fassbinder girava intorno alla coppia dei suoi protagonisti (il primo esempio che mi ricordi) con una steadycam a 720°; usa una canzonetta come commento ad una scena di brutale violenza, come hanno fatto Kubrick in Arancia meccanica, o più recentemente Bong Joon-Ho in Parasite o la Ducorneau in Titane; usa canzoni contemporanee in contesti anacronistici come ha fatto, ad esempio, la Niccharelli in Miss Marx.
Non sto parlando di citazioni o omaggi, né tanto meno di copiature; sto solo dicendo che la Cortellesi usa (naturalmente) un linguaggio contemporaneo impiantandolo sul modello di un cinema d'altri tempi. Parte da una sensazione di semplicità, quasi di naïveté, per introdurre uno stile e dei temi che trascendono il prototipo per farsi cinema dei nostri tempi, capace di attrarre l'attenzione e il favore dello spettatore contemporaneo. Mi sorge il dubbio di stare dicendo delle banalità, ma credo che proprio qui risieda la radice del fascino che il film ha riscosso tra gli spettatori; nel twist tra una promessa di rassicurante semplicità e una sensazione di gratificante complessità.
Un'operazione analoga, e qui azzardo sempre di più, a quella compiuta dalla Gerwig con Barbie: partire da un gioco infantile universalmente riconosciuto e riconoscibile, a suo modo tranquillizzante, per iniettarvi poi un pensiero femminista molto contemporaneo e attuale, tutt'altro che puerile; e, per fare invece un esempio negativo, è l'operazione che invece non è riuscita ai Manetti Bros con Diabolik: anche loro sono partiti da un'icona “semplice”, ma hanno commesso l'errore snob di mantenerne filologicamente intatta la semplicità ingenua e vintage, pensando bastasse a se stessa, senza apportare forti elementi nuovi drammaturgici o stilistici.
Non nascondo che non tutto mi ha convinto in C'è ancora domani, a partire da un didascalismo insistito e da alcune soluzioni stilistiche e narrative (tra queste ultime,  ho trovato davvero fuori luogo quella relativa al nero della Military Police e all'attentato al bar dei futuri suoceri); ma onore a Paola Cortellesi per il risultato conseguito. Perché sembra facile ma non lo è; onore quindi al carattere che ha costruito (una Delia che sarebbe probabilmente piaciuto ad Anna Magnani); alla rappresentazione di un'Italia che rinasce ma che – tra delatori e borsaneristi – si porta non pochi pesi sulla coscienza; all'intuizione di un finale emozionante dove il riscatto da una sopraffazione individuale patita passa per un atto di libertà e di partecipazione collettiva, come le storiche elezioni del 2 giugno 1946; per avere avuto l'illuminazione di una sequenza finale che materializza visivamente l'inno resistenziale e resilienziale di Daniele Silvestri, che canta:
E senza scudi per proteggermi né armi per difendermi
Né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi
Con solo questa lingua in bocca
E se mi tagli pure questa
Io non mi fermo, scusa
Canto pure a bocca chiusa

Fonte: intothewonderland.weebly.com

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