Cassazione: «I precari call center hanno diritto al posto fisso»
Ha il badge e partecipa alle riunioni e per questo non può essere considerato un co.co.pro ma ha diritto al posto fisso: quindi va assunto. Lo ha deciso la Cassazione respingendo il ricorso di una società di call center che non voleva riconoscere la natura subordinata del rapporto di lavoro a favore della dipendente, addetta al call center dal 4 giugno 2001.
Riconosciuto, dalla Cassazione, il diritto al 'posto fisso' per una lavoratrice Co.co.co e Co.co.pro. del call center romano 'Atesia - Almaviva contact', alla quale la società datrice di lavoro non voleva riconoscere il contratto a tempo indeterminato dopo averla impiegata per sei anni sostenendo che si trattava di lavoro autonomo. Ma la Cassazione ha confermato che non si trattava affatto di lavoro a contratto o a progetto in quanto sui 'dipendenti' c'era un «controllo particolarmente accentuato ed invasivo».
Per quanto riguarda la vigilanza alla quale erano sottoposti gli addetti al call center di Atesia - la società di call center più grande d'Europa - la Cassazione osserva che in modo «congruamente motivato» già la Corte d'Appello di Roma aveva spiegato che «il concorso congiunto del sistema informatico, in grado di controllare l'attività del telefonista in tutti i suoi aspetti, e della vigilanza dell'assistente di sala, mostrava l'esistenza di un controllo particolarmente accentuato ed invasivo, non usuale neppure per la maggior parte dei rapporti subordinati esistenti e quindi inconciliabile con il rapporto autonomo».
Per quanto poi riguarda l'assoggettamento della centralinista Roberta B. al potere di controllo e direttivo, i supremi giudici - con la sentenza 4476 - rilevano che nel suo lavoro l'impiegata era sottoposta «non tanto a generiche direttive, ma ad istruzioni specifiche, sia nell'ambito di briefing finalizzati a fornire informazioni e specifiche in merito alle prestazioni contrattuali, sia con puntuali ordini di servizio, o a seguito di interventi dell'assistente di sala».
La Cassazione occupandosi delle condizioni di lavoro nella sede romana di Atesia - dove c'è un enorme contenzioso nato dai ricorsi dei lavoratori co.co.co e co.co.pro - ricorda come ai centralinisti fosse fatto obbligo «di utilizzare un linguaggio appropriato ai contenuti dell'attività professionale, con padronanza di dialogo, capacità di persuadere e massima cortesia nei confronti dell'utenza pertanto si trattava di indicazioni che denotavano un «generale obbligo di coordinamento con le esigenze aziendali».
Ininfluente, è stato poi giudicato dalla Cassazione, in fatto che Roberta B. poteva non osservare un preciso orario di lavoro nella 'fornitura' delle sue sei ore di prestazione per sei giorni a settimana. In primo grado, invece, il tribunale di Roma, con sentenza del 26 settembre 2008, aveva negato a Roberta B. il diritto al posto fisso accogliendo la tesi di 'Atesia' sull'esistenza di un autentico rapporto di lavoro autonomo. La Corte d'Appello di Roma, invece, il 15 settembre 2009, aveva dichiarato la natura subordinata del rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 2001 e fino ad oggi condannando il call center a riassumere la lavoratrice, che nel frattempo era stata licenziata, e a pagarle le retribuzioni non corrisposte.
Fonte: L'Unità
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