di Bruno Ugolini
Sul “Corriere della sera” Paolo Franco segnala così il libro di strisciarossa dedicato ai 100 anni del Pci. Una recensione intelligente di tredici storie di donne e uomini e di un’esperienza irripetibile. Ecco il testo:
Memoria “Care compagne e cari compagni” edito dal blog Strisciarossa
in vista del centenario del partito
Storie di lotta e di passione. Tredici vite
raccontano il Pci
di Paolo Franchi
«Care compagne e cari compagni». Nel vecchio Pci, si trattasse del Congresso nazionale o di un’assemblea di poche decine di persone in sezione, l’oratore cominciava sempre così il suo discorso. Facevano allo stesso modo, ci mancherebbe, anche i socialisti, e persino i socialdemocratici. Nel Pci, il Partito con la P maiuscola, la cosa aveva però un sapore particolare. Nel suo primo discorso da segretario in pectore (Bologna, 1969), Enrico Berlinguer tenne a definirlo «un partito laico e mondano», in polemica con chi lo rappresentava come una Chiesa. Ma una dozzina di anni dopo fu lui a rivendicarne orgogliosamente la radicale «diversità» rispetto a tutti gli altri, e i suoi (con l’eccezione, parziale, della pattuglia migliorista) si riconobbero in questa affermazione, soprattutto alla base. Non sarebbe mai stato possibile se non si fossero sinceramente considerati membri non soltanto di un partito, ma di una comunità di destino. Ce lo ricorda un libro che proprio così si chiama, Care compagne e cari compagni. appena edito, in vista del centenario della nascita del Pci (21 gennaio 1921) da “Strisciarossa”, il blog cui ha dato vita, dopo la chiusura del quotidiano, un gruppo di giornalisti “storici” dell’“Unità”.
Livia Turco ne ha scritto una commossa prefazione, Sergio Staino ed ElleKappa lo hanno impreziosito con le loro vignette. Ma di sicuro non se ne avranno a male se dico che a colpire di più anche chi ha avuto a che fare con questa vicenda collettiva sono le storie di vita dei tredici militanti, donne e uomini di diverse generazioni, dirigenti di base, intellettuali, giornalisti, raccolte dalle migliori firme di “Strisciarossa”. Perché sono storie vere delle passioni, delle speranze, delle pene e insomma del lavoro, perché anche quello politico lo era, di un’Italia all’apparenza, ma solo all’apparenza, minuta (e non parlo solo dei comunisti) che non c’è più da un pezzo, ma che merita di essere raccontata anche per come l’ha vissuta chi l’ha fatta. I più giovani faticheranno (ma un po’ di fatica a volte può servire) a farsi una ragione di un mondo in cui, ma è solo un esempio tra i tanti che questo libro ci propone, una giovane agit–prop, la partigiana romana Luciana Romoli, chiamata negli anni Cinquanta a lavorare alle Botteghe Oscure, pretende con le sue compagne di poter studiare. E il duro Edoardo “Edo” D’Onofrio («er più communista tra i romani, er più romano tra i communisti») risponde di sì, ma solo prima dell’inizio del lavoro, dalle sette alle nove del mattino, e comunica il nome dei docenti: Concetto Marchesi insegnerà l’italiano, Lucio Lombardo Radice la matematica, Luigi Longo la chimica e la fisica.
Non sorprende che i protagonisti di queste storie, quando sono chiamati a parlare dell’oggi, parlino tutti di un senso di vuoto o, quanto meno, di mancanza. Di una comunità che non c’è più da quasi trent’anni, e forse anche da prima, naturalmente. Ma pure, e forse ancora di più, di futuro. Uno stato d’animo reso bene dalla vignetta di ElleKappa. «Il Pci è morto per salvare la sinistra», dice uno. E l’altro: «E poi, cos’è che non ha funzionato?».

 

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