Buoni sentimenti, brava gente, nessun progetto: cosa resta oggi del Pd
di Fausto Bertinotti (Il Riformista)
I politologi tornano a interrogarsi sul Pd. L’attenzione è giustificata dal cambiamento di fase. Il Pd non è più il garante della governabilità, Draghi vi è subentrato e ha cambiato le carte in tavola. Non solo più i critici del Partito democratico, ma tanta parte dei commendatori politici ha convenuto che questo partito si è risolto o dissolto, secondo i punti di vista, nella governabilità. Ma anche al suo interno sono cresciute le voci che hanno denunciato, nell’eccesso di governativismo, la causa fondamentale di una crisi di consenso nella società, crisi che è diventata una vera e propria voragine nelle realtà più popolari e di maggiore disagio sociale. Tutto ciò quasi a formare una nuova retorica. Le dimissioni di Zingaretti e l’elezione di Letta a nuovo segretario, in parallelo al decollo del governo di Draghi, hanno richiesto che si allargasse la domanda su cosa è, e su cosa possa diventare il Pd.
Ad ascoltare il dibattito interno, a partire da quello nei suoi organi dirigenti, non sembra di trovarvi una risposta diversa da quella che emergeva già nella fase precedente. Vero è che sono pochi i dibattiti che si possono sentire in altri partiti, e rari sono ormai i soggetti politici che possono presentare un dibattito in un loro organismo dirigente. Vero, ma questo non basta a fare la diversità. Soprattutto il dibattitto ci dice poco di cosa sia in realtà il Pd, quale sia la sua costituzione materiale e tanto meno ci dice quale sia la via che esso vuole intraprendere. Da questo sguardo appare come un insieme di gente perbene e di buoni sentimenti, ma privo di un autonomo, di un proprio, progetto politico. Purtroppo la cattiva fama che ha avvolto tutte le realtà sociali e politiche affermatesi nel lungo dopoguerra italiano non ha risparmiato l’oratorio, sicché questo viene usato spesso in termini spregiativi. Al contrario, dovrebbe far pensare per similitudine a un luogo frequentato utilmente e a fin di bene. Certo, tuttavia, non a un luogo della politica, semmai a un luogo prepolitico.
L’immagine che si ricava spesso dalle buone pratiche del Pd, laddove ci siano, è questa: manca la politica come autonoma costruzione, come via da intraprendere, come meta da raggiungere. Così, alle buone pratiche, o almeno al loro auspicio, viene giustapposta ancora la delega al governo in carica e una politica delle alleanze, ripescata da una memoria nostalgica di lontane vittorie elettorali, il centrosinistra prodiano, o attesa per pensare di vincere le prossime competizioni elettorali, l’intesa con i Cinque stelle di Conte. Questa giustapposizione viene presentata come necessaria, quando al contrario essa è mortifera, perché impedisce di cercare di capire che cosa ha perduto la sinistra proprio nel quarto di secolo del centrosinistra vivente. In ogni caso, quel che non prende corpo, neppure nel nuovo corso, è la politica con la p maiuscola, quella che per essere tale fornisce le risposte alle domande: chi sono (l’identità), con chi sto? (qual è il proprio insediamento sociale e delle diverse soggettività), contro chi lotto? (chi è l’avversario politico e di società), e per fare che cosa? (la città futura).
Non solo non ci sono le risposte, il che sarebbe anche comprensibile, ma quel che è peggio è che non c’è neppure la loro ricerca. Sembra avvedersene chi propone di realizzare nuovi laboratori politici dentro o accanto il Pd, anche se già costituisce un handicap grave, per chi vi si cimenta, l’omissione di una critica nei suoi confronti. Un’area significativa per i protagonisti che lo animano, da Goffredo Bettini a Mario Tronti, e significativa per la consapevolezza della tradizione storica da cui questi provengono, ne costituirà uno il 29 aprile, si chiama: le Agorà. Il suo manifesto sembra volere rilanciare un’ipotesi neoriformista, non immemore della storia e neppure della propria, compresa quella dei trent’anni di «sottomissione all’egemonia del pensiero liberista con il risultato che ci siamo persi il popolo». Il popolo dovrebbe essere rivissuto in un percorso capace di attraversarlo in nome di un orizzonte non dimentico dei valori conosciuti dal socialismo e dal cristianesimo. Purtroppo solo per i valori, anziché della loro storia. Il punto debole di un’operazione, che pure merita interesse, è però proprio e curiosamente quel che i riformisti storici hanno considerato il loro punto di forza nei confronti degli utopisti e dei rivoluzionari, cioè l’hic et nunc, la pretesa, quindi, di una maggiore capacità di incidenza sul presente rispetto a loro.
Il realismo politico, va riconosciuto, è uno dei tratti della tradizione, ma non è il migliore e quasi sempre, peraltro, male interpretato. Qui diventa addirittura una prigione. Gli inciampi sono due in particolare: il governo Draghi e la condizione reale del Pd. Il presente politico diventa per i neoriformisti, invece che un’opportunità, un ostacolo per la loro ricerca, giacché vi aderiscono acriticamente. Un partito che si chiama democratico non potrebbe impedirsi di leggere criticamente nel presente la tendenza oligarchica che investe la costruzione politica europea e che si manifesta nel governo stesso di cui fa parte. Una tendenza che si vuole neoriformista pretende invece di considerare il governo Draghi come una parentesi, chiusa la quale, essa dispiegherà la sua iniziativa. Ma per farlo, essa deve ignorare il carattere strutturale, politico, dell’operazione di ristrutturazione che New Generation Eu e il Recovery Plan inverano, accompagnandosi con delle riforme di razionalizzazione, senza riforma sociale né ambientale, mentre le diseguaglianze si accentuano incontrastate e la crisi sociale si approfondisce.
Il neoriformismo di domani è così fagocitato dalla realtà capitalistica modernizzatrice dell’oggi. Non c’è scampo, il domani comincia sempre a vivere nel presente e ancora di più in una fase di transizione. Se il realismo politico pregiudica il decollo di un’ipotesi programmatica, che si vorrebbe di riformismo forte, alla stessa stregua, esso lo impedisce nella formazione della propria soggettività, cioè il partito. Il Pd è infatti assunto in questa ipotesi acriticamente, come il luogo dove l’operazione neoriformistica dovrebbe compiersi. Ma non viene fornita nessuna analisi a sostegno della sua riformabilità e neppure vengono indicate le forze necessarie per la rottura con l’esistente.
L’unanimismo in cui vengono annegate tutte le scelte politiche, compreso il cambio dei suoi segretari, viene accettato come fosse una condizione naturale invece che un impedimento alla ricerca e al dibattito politico forte.
Viene denunciato il sistema correntinzio, senza però andare a fondo nel vedere che la balcanizzazione del partito in correnti e potentati è la conseguenza di una mutazione genetica subita, attraverso una devastante deideologizzazione e con la perdita di un referente sociale centrale e con la depoliticizzazione del conflitto sociale. Così viene alla luce il secondo inciampo. Infatti, non sarebbe stato necessario adottare il Pd come il soggetto in cui collocare l’impresa. Per pensare a un possibile diverso percorso, sarebbe bastato ricordare e affidarsi a un classico processo costituente, quello che, se vince, ingloba anche forze prima esistenti, invece che essere da queste fagocitato.
Il caso escluso è il conflitto, ma senza lotta di classe non c’è il riformismo. Lì, ad Agorà si pongono il problema del recupero di un consenso popolare perduto, ma come opinione. La stessa intesa con i Cinque stelle è pensata per concorrervi, grazie alla presenza di questa nella protesta e nella contestazione. Più in generale, sembra di scorgere nell’iniziativa l’esigenza di calare la politica nella vita e nella drammatica realtà sociale del nostro tempo. Del resto è diventata moneta corrente la necessità dichiarata nei partiti di volersi reinsediare nel territorio, ma il territorio non è lo spazio vuoto da riempire cercando il consenso a qualcuno. In esso, ci sono case occupate, centri sociali vitali, luoghi di solidarietà e di mutuo soccorso, realtà organizzate per attività educative, culturali, di cura. Sono luoghi attraversati da culture critiche, dai femminismi, dalle ricerche di spazi liberati.
Ci sono esperienze di autogestione e di autogoverno, come nelle fabbriche salvate dalla chiusura, dall’impegno diretto dei lavoratori. Ci sono le resistenze e le lotte sul lavoro, per difendere l’occupazione, come per scoprire come possibili il ricorso allo sciopero anche quando esso era risultato impraticabile. Ci sono le lotte per l’ambiente, per la natura, anche contro gigantesche opere pubbliche inutili e dannose. Altri soggetti politici e sociali, i soggetti della critica del capitalismo dovrebbero indagare per primi queste realtà di conflitto per promuovere l’incontro e la socializzazione. Essi dovrebbero saper rintracciare i fondamenti dell’antagonismo contemporaneo e le radici del lavoro politico da compiere per un’alternativa di società.
Ma per altro verso, quello che qui consideriamo, pure i neoriformisti, da parte loro, non possono sfuggire al confronto con le ragioni del conflitto e con le sue esperienze, che spesso invece vivono in solitudine e comunque sempre lontane dalle pratiche politiche e istituzionali dei partiti, a partire dal Pd. La lontananza, e a volte persino l’ostilità nei confronti del conflitto (si veda la Valle di Susa) sono la tomba di ogni credibilità della politica e di qualsiasi riformismo, vecchio o nuovo che voglia essere.
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