Berlinguer la grande ambizione
“L’accumulazione del capitale”. Si intitola così il libro di Rosa Luxemburg tra le cui pagine Enrico Berlinguer ha nascosto (e dimenticato) una banconota da 50.000 lire in una delle scene più illuminanti e significative del biopic che il regista Andrea Segre ha dedicato alla sua vita e alla sua figura di militante e leader comunista. Quando la trova, dopo averla ripetutamente cercata invano, si giustifica con la moglie e i figli dicendo che il nascondere banconote tra i libri era “una vecchia usanza dei compagni sassaresi” che non si fidavano delle banche.
Berlinguer – meglio: il “personaggio” Berlinguer messo in scena da Segre e interpretato da Elio Germano – ci scherza su, ma sa bene che con quel gesto anche lui ha ceduto all’impulso che spesso induce la natura umana a risparmiare, capitalizzare e tesaurizzare, al di là e oltre l’afflato ideologico che lo porta a teorizzare la scomparsa del denaro nella società del futuro. E’ una piccola contraddizione fra l’uomo e l’ideologo militante (risolta per altro con un piano sequenza nella scena del “ritrovamento”) che però rivela l’approccio con cui Segre si avvicina a Berlinguer, consapevole che il rischio dell’agiografia è dietro l’angolo, così come il pericolo di scivolare nel “santino” celebrativo o nel monumento in memoriam ad uso e consumo dei nostalgici o dei militanti.
Il Berlinguer di Segre e Germano non è scolpito nel marmo dell’apologia. I figli, ad esempio, lo mettono in discussione. “Nessuno guadagnerà più degli altri!” dice lui prefigurando una futura società di eguali. E i figli: “Ma se uno lavora di più, non dovrebbe avere più soldi?”. E lui, dopo averci pensato un attimo: “Nessuno avrà più bisogno di soldi…”. Ma è una risposta elusiva, che – lui stesso ne è consapevole – lascia aperto il problema.
La famiglia svela senza volerlo i lati deboli o irrisolti dell’ideologia. Così come le donne, che spesso rimproverano al leader del loro stesso partito di parlare quasi solo ai militanti maschi. Segre e Germano cercano insomma di restituire un Berlinguer che vada oltre l’omaggio rituale a 40 anni dalla sua scomparsa con un film che attorno alla figura carismatica di un grande leader politico riesca anche a tessere una sobria e a tratti commovente ricostruzione di alcuni degli anni più difficili, tormentati, complessi e ancor oggi oscuri della nostra storia recente.
Se l’operazione riesce, il merito è anche – in misura non trascurabile – del montaggio di Jacopo Quadri, che con impeccabile naturalezza sa far “scivolare” il racconto dalle immagini di finzione al ricchissimo repertorio attinto all’archivio audiovisivo di quegli anni. Sono immagini che rievocano i fatti tragici di quella stagione storica (dalla strage di Brescia al rapimento di Aldo Moro) mescolandoli con il volto e il corpo di lavoratori e di manifestanti, di uomini e di donne, che sognano un mondo migliore: facce povere, facce spesso segnate dalla fatica, ma anche facce dignitose di un popolo che ancora crede in un progetto di futuro. Facce “vere” che dialogano con quelle degli attori chiamati a impersonare i leader politici dell’epoca (oltre a Elio Germano nei panni di Berlinguer, anche – tra gli altri – un misuratissimo Roberto Citran nei panni di Moro e un inatteso Paolo Pierobon in quelli di Andreotti). Dalla scena a colori in cui Berlinguer e sua moglie sono seduti sul divano di casa e si raccontano i loro sogni il montaggio di Jacopo Quadri ci trasporta senza soluzione di continuità al bianco e nero di immagini di repertorio con folle di manifestanti che a poco a poco si fanno sempre più sfuocate fino a che esplodono sullo schermo scontri di piazza e guerriglia urbana, con la violenza che dilaga e uccide ogni sogno.
Oppure, quando si tratta di rievocare il rapimento di Moro, si passa da inquadrature sui personaggi di finzione sconvolti e attoniti per la notizia appena ricevuta al repertorio che mostra facce incredule, posti di blocco polizieschi e folle riunite davanti alla sede romana della Democrazia Cristiana.
Per visualizzare poi la svolta “ecologista “ del PCI auspicata da Berlinguer negli anni ‘70, il montaggio interrompe la linearità narrativa e sulle note potenti di una ballata evergreen come Eppure il vento soffia ancora di Pierangelo Bertoli mostra immagini di pescatori, lavoratori, ballerini e gente comune alle prese con le occupazioni della vita quotidiana. Epica minima, la Storia fatta di tante piccole storie associate, pubblico e privato che si mescolano e si confondono.
Ma proprio qui risiede la forza dell’operazione: nella capacità di innestare il flusso della Storia nel flusso di una vita, mostrando un Berlinguer che passa dal congresso del PCUS e dal confronto con un arcigno Breznev alle partitelle a pallone con i figli senza mai perdere in verità e credibilità.
Anche su questo piano il montaggio è decisivo: pensiamo anche solo a come Quadri usa il piano sequenza nelle scene in cui il film ha bisogno di rafforzare un momento di condivisione (ad esempio nel dialogo con Moro in cui si pongono le basi del “compromesso storico”, o quando Berlinguer riunisce la famiglia per spiegare la sua decisione di non trattare con le BR).
Ma poi, talora, all’improvviso il racconto si interrompe e per qualche istante il montaggio accoglie nel flusso visivo immagini apparentemente non necessarie e non funzionali: alcune finestre con le luci accese, un pino marittimo isolato, edifici e palazzi ripresi dal basso. Quasi a suggerire – forse anche inconsapevolmente – che gli uomini e le idee passano, e che spesso – silenziosi testimoni del nostro affannarci – restano soprattutto la natura, le case e le cose.
E una banconota da 50.000 lire nascosta in un libro sull’accumulazione del capitale.
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