da Invictus.

“Il rugby è una voce del verbo dare. A ogni allenamento, a ogni partita, a ogni placcaggio, a ogni sostegno, dai un po` di te stesso. Prima o poi qualcosa ti tornerà indietro.” Marco Pastonesi

Quindici uomini rincorrono una palla. Una palla che non è tonda, ma ovale. Ogni singolo elemento è a disposizione della squadra. Lo scopo comune è quello di fare meta, di portare quella palla, che tonda non è, nella meta campo avversaria. Lo devono fare passandosi quell'ovale all'indietro. Il rugby è uno sport di squadra, di contatto. È una lotta di centimetri, di fatica, di sudore, di forza. Quindici uomini hanno un unico imperativo categorico: portare quella palla, che tonda non è, a meta e... vincere.
Questa è la storia di un uomo temprato dalla sua terra, dai suoi ideali, dallo sport. Amava ripetere che se non fosse stato per il rugby, per quella palla che tonda non è, forse non si sarebbe mai salvato. Perché lo sport, il rugby, non è solo l’atto atletico intrinseco, non è solo “mischia”, “meta”. L’arte della palla ovale va oltre. È sostegno, forza, rispetto, sacrificio. Il rugby è imparare a dare tutto sé stesso. Questa è una storia di resistenza, di sacrificio, di solidarietà. È la storia di un rugbista.
Aldo Battagion, nasce a Bergamo nel 1922. Fin da ragazzino ha una forte propensione per lo sport. È poliedrico, appassionato, generoso. L’incontro con la palla ovale avviene durante gli anni trascorsi sui banchi dell’istituto per geometri di Bergamo. È un amore a prima vista, di quelli coinvolgenti, intensi. Inizia a giocare con la “GIL Bergamo”, dove “GIL” è l’acronimo di “Gioventù Italiana Del Littorio”. Aldo, però, del fascista modello non ha nulla. Da ragazzino, non è stato un balilla diligente. Da adulto, non condivide le idee del Duce. A lui interessa solo giocare. Il suo ruolo non può che essere “mediano di mischia”. È l’uomo di raccordo, l’uomo della visione di gioco, colui che orchestra la squadra verso la meta.
L’amore viscerale per la palla ovale continua durante gli anni universitari di Milano. La sua carriera prosegue nel “Rugby Milano”. Aldo è bravo, forte. Le sue qualità lo portano a giocare due partite nella nazionale “goliardica” di Rugby, una sorta di rappresentativa universitaria. Indossando la maglia nera con la M di Mussolini sul petto, gioca a rugby e si sente immune in un mondo fatto di divisioni e costrizioni. Per quel giovane bergamasco, figlio della “Città dei Mille”, giocare, passare, calciare quella palla che tonda non è, è una pura espressione di libertà.
L’8 settembre del 1943, Aldo è un militare di servizio presso l’aeroporto di Reggio Emilia. Non è un fascista, non lo è mai stato. Alla firma dell’armistizio, torna nella “sua” Bergamo e aderisce alla Resistenza. Si mette a capo di una banda di partigiani di stanza a Zambla, un piccolo centro della provincia orobica. Il compito di quel manipolo di uomini è l’approvvigionamento di armi. È un militante appassionato, coraggioso. È artefice di operazioni spericolate, fondamentali per il movimento partigiano nel bergamasco.
16 gennaio del 1944. Aldo viene a conoscenza di un rastrellamento imminente da parte dei fascisti. Deve avvisare i suoi compagni. La sua è un’educazione di squadra, di sostegno, di sacrificio. Non può sottrarsi al suo compito. Viene catturato al Roccolo Gasparotto. Imprigionato dai fascisti, subisce torture, interrogatori drammatici. Il fine è quello di estorcere informazioni. Aldo è un rugbista. Subisce le violenze, le torture, le umiliazioni, ma non può tradire i suoi compagni. Viene consegnato ai tedeschi. Inizialmente viene incarcerato a S. Agata, successivamente a S. Vittore.
Il 9 ottobre del 1944 viene deportato nel campo di Dachau. È uno “Schutz”, un prigioniero politico, numero di matricola 113154.
Lo “Schutz” n° 113154 è in baracca con prigionieri italiani e polacchi. Un giorno, un detenuto polacco muore, flagellato dal tifo, vera sciagura in quel posto dimenticato da Dio. I tedeschi irrompono e alla vista del cadavere cominciano a ringhiare ordini incomprensibili. Aldo sa il tedesco. Traduce agli altri quei latrati. Chi avrebbe portato via il cadavere e lo avrebbe lavato, avrebbe ottenuto una razione di cibo in più. Aldo con quel gesto, probabilmente, ha salvato la sua e la vita degli altri. Insieme ai suoi compagni di sventura si prodiga per esaudire quegli ordini.
Battagion, Il “mediano di mischia”, fa squadra anche in quell'inferno. Insieme ad altri compagni, si prodiga nel pulire marmitte e bagni. Il loro è un lavoro pericoloso. Sono sottoposti al contagio del tifo. Si sostengono, lottano centimetro per centimetro pur di ottenere la meta: sopravvivere a Dachau, all'orrore.
29 aprile 1945. Le truppe Statunitensi liberano il campo. Aldo è ancora vivo. È un superstite. In quella manciata di mesi lo avevano placcato, lo avevano privato di tutto, del cibo, della dignità, della libertà. Il pensiero di tornare a calciare quella palla che tonda non è, lo aveva accompagnato in quell'odissea. I principi del gioco, fondati sulla squadra, il sostegno, il sacrificio, la fatica e il coraggio avevano puntellato la sua forza di vivere.
Tornato a casa, Aldo torna a giocare a Rugby, nella Amatori Milano. Colleziona due presenze nella nazionale maggiore.
Aldo Battagion ci ha lasciato il 15 marzo del 2007
Questa è la storia di un uomo coraggioso e appassionato. È la storia di uno sportivo che l’idiozia aveva provato a placcare. Un rugbista, però, è abituato a rialzarsi, è abituato alla resistenza. Lo puoi placcare una, due, tre volte, ma il coraggio non lo puoi fermare. Quando raccontava la sua storia, quell'uomo ripeteva: “Se non fosse stato per il rugby, forse non mi sarei salvato”.
Questa è la storia di Aldo Battagion, un rugbista, un italiano…un…BERGAMASCO…
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