AUMENTARE I SALARI: SE NON ORA QUANDO?
di Fausto Bertinotti.
Fa bene Maurizio Landini a porre il problema. La questione salariale in Italia esplode sulla grande stampa periodicamente per poi, come sempre, scomparire. Per i lavoratori esplode ogni giorno, tutti i giorni. Per i governi e per il legislatore non esplode mai. Questa è solo una delle drammatiche conseguenze della cancellazione del lavoro nell'agenda della politica, un'eredità delle politiche neoliberiste che grava così pesantemente nella vita delle popolazioni lavorative. La condizione sociale delle lavoratrici e dei lavoratori continua ad essere costantemente sotto schiaffo. I bassi salari, l'erosione sistematica del loro potere d'acquisto ne sono una causa e un indicatore della sua intollerabilità. La questione dura da trent'anni senza trovare alcuna risposta né da parte delle istituzioni, né da parte della politica, né, purtroppo, sul terreno sociale. I dati ufficiali sono impressionanti. Dal 1990 al 2020 l'Italia è l'unico paese europeo che registra addirittura un calo dei salari (esso ammonta al 2,9%) mentre nei 36 paesi dell'OCSE i salari aumentano e in maniera significativa del 38,5%. Nell'ultimo decennio, fra il 2010 e il 2020, per i lavoratori italiani, le cose sono andate ancora peggio e le retribuzioni sono scesa dell'8,3%. Ancora l’OCSE prevede che anche nel 2022 i salari reali in Italia perderanno più della media dei paesi che vi fanno riferimento. La favola nera per i lavoratori italiani, secondo la quale questo disastro sociale sarebbe la conseguenza inevitabile della bassa produttività del sistema nostrano, è falsificata dai dati anche recentemente forniti. Un rapporto dell'INAPP ci dice che la produttività italiana nell'ultimo decennio è salita del 21,9 %. Bisognerà prendere atto che il sistema produttivo del paese e, in esso, il primato dell’esportazione sono strutturalmente fondati su bassi salari e sulla precarietà del lavoro. Proprio la ragione per la quale andrebbe messa in discussione in radice evidenziando, per questa via, quello che dovrebbe diventare il compito principale di una politica riformatrice e l'orizzonte necessario al nuovo conflitto sociale.
Mi pare evidente che la questione salariale, la sua crisi profonda, la sua separazione dai bisogni dei lavoratori interroghi direttamente la pratica sociale, il livello del conflitto di lavoro, la contrattazione sindacale. Qui si conoscono esperienze interessanti, ma il quadro è molto preoccupante, il futuro lo aggrava. La previsione dell'inflazione è del 7% quest'anno, del 5,5% l'anno prossimo. Le retribuzioni non ne recuperano che la metà. La mancanza di una legge sulla rappresentanza favorisce l'estensione di contratti pirata che minano l'unità del mondo del lavoro mettendo in luce, anche per questa strada, l'errore pesante di non aver ingaggiato per tempo una lotta per il salario minimo garantito per legge. Ma il problema investe più generalmente la condizione del contratto nazionale di lavoro. Fin dalla legge Sacconi e del jobs act il contratto è stato aggredito da una legislazione non-union antioperaia che ha visto protagonista tanto la destra quanto il centro sinistra. Ma oggi lo stato dell'arte è, a sua volta, assai preoccupante. È stata l'Istat a dirci, ai primi di novembre, che 6 milioni di lavoratori, circa la metà dell'intera popolazione lavorativa del settore privato, non hanno ancora rinnovato il loro contratto nazionale di lavoro. Nell'ultimo periodo i tempi di attesa del rinnovo, a contratto scaduto, si sono ancora allungati fino a raggiungere i 34 mesi, mesi che si traducono in ulteriore perdita del potere d'acquisto del salario e in un aumento dei sacrifici imposti alle famiglie dei lavoratori. Peggio per quelle a più basso reddito perché, com'è noto, l'inflazione non è un male sociale egualitario giacché essa colpisce più duramente i consumi delle famiglie più povere, meno abbienti. Secondo l'Istituto di statistica l'inflazione pesa sui redditi più bassi 4 o 5 punti in più che in quelli più alti.
La scala mobile è stato l'argine più efficace conquistato dal movimento sindacale contro l'inflazione, una grande conquista nel campo vasto della distribuzione del reddito, la sua demolizione non poteva avere alcuna reale compensazione e non l'ha avuta. La tesi secondo cui essa sarebbe stata sostituita dalla contrattazione è stata falsificata come conferma, ancor oggi, lo stato dei contratti nazionali. Quelli rinnovati prima dell'impennata inflattiva che continua la sua corsa, non avevano neppure previsto di dover recuperare una così grave perdita salariale e hanno lasciato i lavoratori senza tutela. Ma anche quelli che si rinnovano ora, in piena inflazione, risultano del tutto inadeguati, con la parziale eccezione di quello dei metalmeccanici. Basti pensare che l'indice fissato con la Confindustria per l'adeguamento dei salari all'inflazione è al netto della componente energetica. È difficile sottrarsi al vecchio motto "oltre al danno la beffa!” per non ricorrere a quello più volgare, ma veritiero, che parla del destino degli operai in questi casi così deplorevoli. Sempre per rifarsi al classico del conflitto sociale, bisognerebbe che risuonasse, alto e forte, un "ora, basta" e che si avviasse una nuova fase del conflitto di classe, del conflitto sociale, del conflitto di lavoro. La costruzione di una piattaforma salariale e di un adeguato fronte di lotta è un’operazione necessaria e urgente ma non facile, né sul terreno della sua elaborazione, né sul terreno della forza necessaria per dar vita a una svolta e a una diversa fase nei rapporti sociali. Dunque, si tratta di un'operazione necessaria, difficile ma possibile se si guarda con attenzione e piena partecipazione a tutte le azioni di resistenza e di conflitto che si sperimentano e vivono nelle diverse realtà sociali, territoriali, settoriali e aziendali, qualunque sia l’organizzazione che le promuove e ne è protagonista. Il centro di attrazione dell'attenzione e della relazione deve essere la natura del conflitto e solo essa. Fare l'inchiesta e fare la mappa per tessere le relazioni di una nuova soggettività critica e di lotta.
Si potrebbe dire, più semplicemente ma forse ancor più impegnativamente, che è giunto il tempo di costruire un movimento di lotta salariale per una più equa distribuzione del reddito. In teoria potrebbe comportare, sulla determinazione del salario, la vittoria della tesi di Marx contro quella di Lassalle, in pratica bisognerebbe capire che tutte le esperienze storiche dimostrano "come le leggi che regolano i salari sono molto complicate, che talvolta ha prevalenza l'una e talora l'altra a seconda delle circostanze; che pertanto esse non sono in alcun senso di ferro, ma al contrario molto elastiche". Perciò non bisognerebbe farsi soggiogare dalle presunte compatibilità che, in realtà, sono solo il predominio del profitto sul salario. È dunque necessario riaprire la grande contesa, senza farsi abbagliare da false soluzioni e senza prendere sentieri fuorvianti. Un fisco così classista, così avverso al lavoro dipendente, come basta a dimostrarlo il confronto col lavoro autonomo, è chiaro che richiede una riforma e, rispetto all'immediato, un intervento forte sul cuneo fiscale a tutto vantaggio dei lavoratori. Ma guai a pensare che venga da qui la soluzione al problema dei beni sociali. In Francia è Macron e il governo a indicare questa via e il sindacato a combatterla in nome dell'aumento dei salari, un aumento generalizzato come vorrebbe la C.G.T. Si tratta di chiamare in causa sia la legge che il contratto, sia l'impresa che lo Stato. Entrambi sono gravemente debitori nei confronti dei lavoratori, del salario. Entrambi debbono essere chiamati a “farsi controparte”, a rispondere a un movimento che li chiama in causa con obiettivi rivendicativi e sociali forti e a un cambio negli indirizzi generali di politica economica e sociale. Quelli immediati direttamente da una ricognizione, anche solo sommaria, delle evidenze di una condizione lavorativa e sociale intollerabile, emergono da una analisi dei bisogni primari compressi o addirittura negati, da una condizione salariale da lungo tempo impoverita.
Non è il tempo di scegliere tra questo e quello non è il tempo dell’oppure. È il tempo della somma di obiettivi diversamente qualificanti ma tutti necessari per costruire una piattaforma di riscossa salariale e di lotta alle povertà e alle diseguaglianze. Non il fisco al posto dell'aumento delle retribuzioni, non il contratto al posto della legge pro union. Una seria riforma fiscale capace di colpire le grandi ricchezze, gli extra profitti, le rendite, capace di concorrere alla risoluzione delle diseguaglianze, deve cominciare da un immediato risarcimento ai lavoratori obiettivo a cui può concorrere l’intervento sul cuneo fiscale. Il reddito di cittadinanza è stata l'unica misura legislativa socialmente apprezzabile. Va potenziato, qualificato, esteso come ha suggerito l'indagine della Caritas. Il reddito minimo garantito per legge, in una quantità congrua, è indispensabile per dare una tutela a chi altrimenti è costretto a lavorare con salari da fame, a essere un lavoratore povero, è necessario per contrastare il lavoro nero. Contro il sistematico furto sui salari prodotto dall'inflazione, l'aumento generalizzato delle retribuzioni e la ricostruzione di una loro efficace indicizzazione è l'unica risposta possibile. La contesa tra salario e profitto non può essere abbandonata, se non a prezzo di fare del salario la variabile dipendente dell'accumulazione capitalistica, con il risultato della crisi sociale che viviamo. La ripresa del conflitto di lavoro è ancora la via maestra. Ultimi, penultimi, possono stringersi in una coalizione del lavoro di cui facciano parte, a pieno titolo, le aree più dinamiche del mondo del lavoro. Occorre una piattaforma mobilitante e la costruzione di un ampio fronte di lotta. La piazza e lo sciopero generalizzato non sono cose dell'altro mondo.
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