di Emiliano Brancaccio  e  Riccardo Realfonzo

Il dibattito sulla politica economica europea non ha brillato per lucidità, in questi anni. Fin dalla crisi dell’eurozona la discussione è stata quasi sempre monopolizzata dalle fazioni dei pasdaran dell’europeismo e del nazionalismo, con esiti spesso grotteschi per la qualità della dialettica politica. A distanza di un decennio da quella crisi, le cose non sembrano esser cambiate: anche l’attuale controversia sul Meccanismo europeo di stabilità sembra guidata da bande di ultras scarsamente interessate alla realtà dei fatti.

In questi mesi la disputa sul MES si è arenata intorno un possibile prestito limitato al settore sanitario. Ne abbiamo sentite di tutti i colori, in merito. Il collega Tito Boeri si è spinto a dichiarare che se avessimo utilizzato le risorse del MES destinate alla sanità avremmo evitato la seconda ondata del virus. Una dichiarazione che avrebbe un notevole potenziale comico se non riguardasse una tragedia. La verità è che sul piano tecnico l’annosa controversia sul MES sanitario è secondaria: perché l’implicazione, di un risparmio di interessi di trecento milioni annui nella migliore delle ipotesi, è davvero poco rilevante a livello macroeconomico.

Da pochi giorni, però, il dibattito ha improvvisamente virato sulla questione principale, di cui finora si è parlato pochissimo. Ci riferiamo al fatto che dopodomani il Parlamento dovrà votare la riforma complessiva del MES, che regolerà i prestiti europei in caso di crisi finanziaria. È una questione che riguarda non trecento milioni ma la gestione complessiva di un eventuale default, statale e bancario, di decine di miliardi.

Assieme ad altri cento economisti e giuristi, abbiamo chiarito altrove le ragioni della nostra contrarietà alla riforma. In questa sede vorremmo soffermarci su un altro punto, che potremmo definire di metodo e di onestà intellettuale. Il punto è che diversi esponenti politici e lo stesso ministro dell’economia hanno dichiarato che se il Parlamento vota a favore della riforma del MES, ciò non implica che in futuro utilizzeremo i prestiti del MES. Come cercheremo di argomentare, questa posizione è illusoria.

Tutto parte dal ruolo attuale della Banca Centrale Europea. Benché gli sia impedito di agire da prestatore di ultima istanza in grado di finanziare direttamente la spesa pubblica – come avviene negli USA e in altri paesi – l’istituto di Francoforte sta comunque svolgendo quello che Paul Davidson avrebbe definito un ruolo di “market maker”. Vale a dire, la BCE sta agendo da disciplinatore dei mercati, da domatore che addomestica la bestia della speculazione. Il motivo per cui non abbiamo ancora assistito a un’ondata di vendite sul mercato di titoli italiani, spagnoli, portoghesi, persino francesi, e per cui al contrario gli oneri del debito si sono ridotti, è che la BCE quei titoli li sta comprando in massa. Il banchiere centrale interviene cioè discrezionalmente nel mercato secondario, fuori da una logica di mercato e dagli schemi della capital key, manipolando l’intera struttura dei tassi d’interesse. Questo significa fare il “market maker”.

Con la residuale eccezione di qualche collega tolemaico che crede ancora alla favola della teoria quantitativa della moneta, gli economisti competenti in tema sanno che questo ruolo non convenzionale del banchiere centrale dovrà esser preservato a lungo se si vorrà evitare uno spaventoso avvitamento della già tremenda crisi in corso.

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Il problema è che vedere la BCE agire da disciplinatore dei mercati non piace affatto agli operatori sui mercati e ai loro rappresentanti. Tra questi vi sono anche gli architetti del MES riformato, da Klaus Regling a Rolf Strauch. Questi non fanno mistero di intendere la riforma del MES come un altro dei tasselli per il completamento dell’Unione e per la connessa “normalizzazione” della politica monetaria. In altre parole, il nuovo MES e le altre riforme in corso dovrebbero anche aiutare la BCE a ritirarsi dalle funzioni di “market maker”, permettendole di abbandonare finalmente il ruolo un po’ “sovietico” di disciplinatore del mercato. In tal modo, saranno piuttosto il mercato e le forze della speculazione a “disciplinare” nuovamente gli stati dell’Unione, come accadeva ai vecchi tempi.

[Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (foto Ansa)]

Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (foto Ansa)

Non è difficile prevedere gli esiti a cui porterà un simile progetto. L’implementazione del nuovo MES e la connessa “normalizzazione” della politica monetaria condurranno a una progressiva risalita dei tassi d’interesse e dei loro differenziali. Questo cambio di scenario metterà in crescente difficoltà gli stati membri più fragili, innescando processi di insostenibilità del debito e di instabilità del sistema bancario, fino alla crisi finanziaria. Presto o tardi, quindi, questi paesi saranno inevitabilmente costretti a chiedere l’attivazione del MES. E poiché nelle regole del MES riformato è evocata l’ipotesi sia di ristrutturazione del debito pubblico sia di perdita per azionisti e obbligazionisti delle banche, questa semplice evocazione alimenterà ulteriormente le vendite sui mercati e renderà quindi ancor più inevitabile il ricorso ai prestiti MES, che ovviamente restano condizionati al ritorno dell’austerity. L’Italia, inutile precisarlo, è tra le prime cavie destinate a sperimentare questa funesta sequenza deflazionistica.

Qualcuno potrebbe arditamente obiettare che non vi è una relazione necessaria tra la riforma del MES e la normalizzazione della politica monetaria. Ma questa replica sarebbe ingenua. Chi conosce la storia dell’unificazione europea sa bene che il MES nasce espressamente come istituzione “cuscinetto” necessaria a proteggere la BCE da ogni tentazione di trasformarla in un “market maker”. La riforma del meccanismo va esattamente in questa direzione. Si tratta, in ultima istanza, di un elemento di quel progetto di rimodulazione della “regola di solvibilità” del banchiere centrale che da tempo viene invocato dai portatori degli interessi prevalenti, allo scopo di accelerare la tendenza alla centralizzazione dei capitali in Europa [1].

Così dunque funziona il gioco. Pertanto, sostenere che si può approvare la riforma del MES senza ricorrere ai prestiti del MES è una posizione politica illusoria. Lo si comprende facilmente se si valuta la meccanica complessiva delle istituzioni europee e gli interessi che la ispirano. Nel dibattito delle prossime ore sarebbe intellettualmente onesto tener conto di questo fatto.

NOTA

[1] In tema, si rinvia a: Brancaccio, E., Moneta, A., Lopreite, M., Califano, A. (2020), Nonperforming Loans and Competing Rules of Monetary Policy: a Statistical Identification Approach. Structural Change and Economic Dynamics, 53; Brancaccio, E., Giammetti, R., Lopreite, M., Puliga, M. (2019). Monetary Policy, Crisis and Capital Centralization in Corporate Ownership and Control Networks: a B-Var Analysis. Structural Change and Economic Dynamics, 51; Brancaccio, E., Fontana, G. (2016), ‘Solvency rule’ and capital centralisation in a monetary union, Cambridge Journal of Economics, 40 (4); Brancaccio, E., Fontana, G., Lopreite, M., Realfonzo, R. (2015), Monetary policy rules and directions of causality: a test for the Euro Area, Journal of Post Keynesian Economics, 38 (4). Sul rischio di una crisi del debito sovrano italiano qualora la BCE interrompa la politica di “market maker”, si veda pure: Realfonzo R. (2020), Finanziamento delle politiche e scenari del debito dopo il Covid-19, Economia e Politica, aprile.

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