di Giuseppe Mattioli

In queste bellissime e rare giornate di Gennaio, con il cielo sereno e con un sole splendente che mitiga il rigido dell’inverno, con il mio amico Sergio siamo andati a fare lunghe passeggiate fra i boschi di Montemalbe. In una di queste abbiamo deciso di tornare a visitare i ruderi dell’antico Eremo di
Santa Maria del Sasso. Lasciata la macchina sulla panoramica, abbiamo imboccato un sentiero in salita nel bosco, pieno di ciottoli e di solchi scavati dall’acqua. Mentre camminavamo di buon passo, conversando amabilmente e ammirando il bosco che si apriva dinanzi a noi, siamo arrivati facilmente in una piazzola fra gli alberi, dove al di sopra di rocce calcaree si erge il vecchio eremo. Da lassù si godeva di uno spettacolare paesaggio.
In lontananza gli Appennini innevati, con le cime dei monti più noti: il Catria, i Sibillini, il Cucco, il Vettore e naturalmente più vicino a noi il Subasio. Sotto tutta la piana di Assisi, la città di Perugia e altre località famose. L’antico Eremo di Santa Maria del Sasso, ora abbandonato, contiene affreschi
attribuiti al Maestro di Paciano attivo a Perugia prima metà del XIV secolo. Sorge sul versante del colle di Montemalbe che guarda verso Perugia, a poca distanza dalla cima e dalla cappella della SS. Trinità. Il piccolo complesso edilizio si sviluppa a strapiombo su un dirupo di roccia calcarea, di qui, evidentemente, la denominazione “Sasso” come risulta tuttora anche dai toponimi. “La presenza di religiosi in questa parte di territorio “fratrum de Monte Balbe” era notevole nella densa selva, tra eremi, cappelle e oratori, se ne ha notizia da un privilegio di Innocenzo II del 24 maggio 1139.
Nell’epoca comunale Montemalbe fu una delle più ricche e organizzate comunanze di Perugia e fin dall’anno 1200 il comune assicurava agli abitanti delle adiacenze il diritto di legnatico e di estrazione della pietra calcarea per costruzione e per calcinai. Nel 1277 già appaiono nei documenti i “fratres de Monte Balbe” sovvenzionati dal comune ma più intensi furono gli insediamenti nel secolo successivo, favoriti certamente dalle autorità cittadine e dalla ricca categoria degli appaltatori anche per interessi economici, come la salvaguardia della comunanza. Nel 1318 il Comune di Perugia in netta contraddizione alla bolla di Giovanni XXII “Sancta Romana” del 30 dicembre 1317 in cui condannando gli Spirituali e le varie sette eretiche dei loro seguaci, intendesse estirparne dalla Chiesa la mala pianta, concede ai fraticelli “qui morantur ad Sassum in Monte Malbe et iuxta ipsum Sassum“, una mina di terreno seminativo della comunanza del Monte “reservato semper comuni Perusii dominio et proprietate“. In tutti i documenti gli abitanti di questi luoghi sono chiamati molto confusamente frati, fraticelli, eremiti.
L'esperienza dei fraticelli di Monte Malbe si è caratterizzata per il radicale atteggiamento pauperistico, in polemica opposizione con i Frati Minori, accusati di
essersi allontanati dall'ideale delle origini: una pratica alquanto contraddittoria, perché i frati avevano diritto a numerosi vantaggi e probabilmente praticavano la commenda, come testimoniano le attività di estrazione del "marmo nero di Toppo Tanella" adiacente all'eremo. Nel 1389 il priore di Santa Maria, fra Liberato da Borgo San Sepolcro, allibrando i beni del suo monastero nel catasto cittadino, ci fa conoscere quanto si fossero allargati i possedimenti di S. Maria del Sasso nel contado di Perugia e più significativamente nella città, come in porta S. Pietro, in porta S. Susanna e in porta S. Angelo. Mentre l’Inquisizione tentava di estirpare questi movimenti che chiamava addirittura “filii maledictionis“, il Comune di Perugia si pose sempre in posizione avversa alle decisioni papali liberando addirittura alcuni prigionieri dalle carceri dell’Inquisizione e anche il Vescovo di Perugia cominciò ad attenuare il proprio atteggiamento tanto che nel 1359 il monastero di Santa Maria del Sasso ottenne l’approvazione da questo vescovo e da quello di città di Castello ed il Priore fu Francesco di Nicolò da Perugia conosciuto anche con lo pseudonimo di “Papa fraticellorum” ed applicò la regola di Sant’Agostino. Conosciamo anche il loro abito, bianco con scapolare, cappuccio piccolo e un mantello grigio, alla maniera dei fraticelli, “cum naticchia sicut portant fratres de tertio Ordine beati Francisci“. In quel periodo si contano una decina di frati e il monastero superò la fase inquisitoria che ebbe come unico esito le dimissioni del Priore della congregazione, il quale, tuttavia, continuò con ogni probabilità ad essere il regista occulto della vita della comunità. Purtroppo però le successive vicende politiche perugine e non solo provocarono scontri che produssero diversi fuoriusciti che tra le altre razzie compiute il 13 marzo 1390 fecero un’incursione su Montemalbe e predarono 1500 capi di bestiame e fecero 25 prigionieri. I frati cominciarono a temere per la loro incolumità in conseguenza della loro collocazione politica e le loro simpatie per il governo popolare. I nobili di Perugia commisero in quegli anni diversi delitti e fra questi ci fu l’assassinio di fra Liberato e di alcuni frati nel 1395. I frati di Montemalbe furono ridotti in uno stato di estrema povertà tanto che i Priori delle arti l’anno dopo erogarono un’elemosina di 10 fiorini per il Romitorio di S. Maria che era stato depredato di tutto. Dopo questo eccidio l’eremo fu concesso ai frati dell’Osservanza di Monteripido e i fraticelli superstiti si dispersero. Nell’anno 1411 si chiude la storia dell’eremo. Il luogo fu annesso dal comune alla nuova chiesa di S. Mara del Condotto in porta S. Angelo e l’ultimo fraticello, fra Lorenzo di Giovanni da Perugia, subiva a Lucca un processo per sospetto di eresia. Nelle fasi successive, l’eremo è passato in mano privata e ridotto a casa colonica con le dovute modifiche strutturali che ne hanno mortificato la sua naturale dedicazione. Il nucleo originario dell’eremitaggio è tuttora distinguibile nel corpo settentrionale dell’edificio tra le cubature aggiunte poi. Scendendo una ripida scala ricavata nella roccia si rinviene un vano nel quale s’apre la spelonca che con ogni probabilità costituiva il primitivo ricovero dei frati anacoreti. Di fatto probabilmente i primi monaci che vi si sono insediati hanno sfruttato quella cavità che non è naturale, ma frutto di uno scavo sicuramente sepolcrale del popolo etrusco, ma non solo, girovagando nel bosco è facile vedere terrazzamenti e pietre modellate di chiara origine romana, il che evidenzia il fatto che l’antropizzazione del luogo arriva da contesti storici molto più antichi. Sopravvivono, tuttavia, alcuni avanzi di affresco: brani di panneggio sotto i quali spuntano i piedi nudi di tre personaggi in origine a figura intera e contigui l’uno all’altro; evidentemente una teoria di santi, interpretabile come un’Ascensione, o meglio un’Assunzione della Vergine, dal momento che proprio a Maria la cappella era intitolata. Nello spazio così circoscritto sono distinguibili tre zone: procedendo da destra verso sinistra, nella prima si incontrano un San Francesco e un Santo Vescovo; a seguire, una porzione di muro che nello stato attuale appare priva di immagini e, nella rimanente superficie l’impronta di una figura della quale si discernono a malapena il rilievo dell’aureola e certi dettagli che fanno pensare ad emblemi vescovili”. Da pochi mesi i ruderi sono stati acquistati in un’asta pubblica e si spera che siano restaurati al più presto.

 

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