Acqua, un capitale pubblico
di Duccio Valori, già direttore centrale dell’iri
Chi promuove la privatizzazione del servizio idrico integrato, la giustifica con la necessità di attrarre capitali per effettuare gli investimenti occorrenti per ristrutturare la rete.
Lo ha ribadito, recentemente, in un’intervista al Corriere Economia, Marco Staderini, l’ad di Acea, la più importante azienda del settore, quotata in Borsa: ci sono “4 miliardi di opere immediatamente cantierabili -ha detto-, con la creazione di centomila posti di lavoro”.
La necessità di investimenti di miglioramento, manutenzione ordinaria e straordinaria, di innovazione (riciclo dei reflui, per esempio) appare del tutto evidente anche a noi. Ma la soluzione proposta, quella della privatizzazione, è sbagliata.
Perché una volta che i privati avessero acquisito il controllo delle reti idriche avrebbero due sole possibilità: o non fare gli investimenti, e quindi la privatizzazione sarebbe stata del tutto inutile; o farli, e mettere ammortamento e interessi sul capitale a carico degli utenti, con un pesante aumento delle tariffe (e questa appare la tesi). In realtà, questa soluzione ammette qualche alternativa. Nel caso di vittoria del sì ai 2 referendum, si potrebbe pensare al ricorso ad una fonte di finanziamento non tradizionale, o comunque ormai pressoché dimenticata: il prestito irredimibile, cioè un titolo di rendita perpetua emesso dallo Stato e collocato presso i cittadini risparmiatori, che non prevede la restituzione del capitale ma soltanto il pagamento di un tasso di interesse annuo predeterminato (quello immaginato è intorno al 5-6%). Non essendo prevista la restituzione del capitale, il prestito irredimibile non avrebbe l’effetto di aumentare il debito pubblico. Questo concetto è legato a realtà operative pubbliche, caratterizzate dalla capacità di produrre un reddito sufficiente a far fronte agli interessi sul capitale impiegato ed ai fabbisogni di gestione e manutenzione, ma non ad ammortizzare il capitale investito. L’esempio più immediato è quello della costruzione di reti metropolitane: se il prezzo del biglietto venisse portato a livelli tali da coprire i costi di gestione e l’ammortamento del capitale investito, il costo della corsa sarebbe tanto elevato da scoraggiare l’utenza; in altri termini, un sistema concepito per trasportare non meno di 50mila passeggeri/ora finirebbe con l’averne poche centinaia, non solo non raggiungendo i propri fini, ma creando una voragine economico/finanziaria.
L’esempio delle metropolitane, dove esiste una forte elasticità domanda/prezzo, è applicabile solo in parte all’acqua, dove la domanda è rigida (anche in caso di tariffe elevate occorre comunque bere e lavarsi); ma qui subentrano i concetti di socialità e di bene comune, che non dovrebbero consentire a nessuno di lucrare rendite su qualcosa di tanto necessario.
Naturalmente, l’erogazione dei fondi pubblici potrebbe essere effettuata soltanto nei confronti di aziende pubbliche come le municipalizzate, e non in quelli di società per azioni -anche a maggioranza pubblica-, che sono a tutti gli effetti società private, e nei confronti delle quali l’Ue potrebbe avviare azioni punitive per violazione della concorrenza: assegnare risorse pubbliche a queste aziende, infatti, costituirebbe a tutti gli effetti un aiuto di Stato.
FONTE: WWW.ALTRECONOMIA.IT
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