1 maggio, Attilio Gambacorta sulla questione del lavoro
Il Covid-19 ha fatto scattare la recessione occupazionale e la questione dell’inattività. Una posizione in cui si trova chi oggi sta perdendo il posto: in cui non si produce e neanche si cerca un impiego, perché si è scoraggiati e senza competenze
I timori di tutti per questa recessione appena iniziata si concentrano sulla perdita di posti di lavoro che già si intravede dai primi dati provvisori dell’Istat, per cui in aprile nel 2020, ancora in pieno lockdown, lavorava circa mezzo milione di persone in meno rispetto a un anno prima.
Si tratta di un arretramento ai livelli occupazionali di più di tre anni fa, e certamente il calo non si fermerà nei prossimi mesi. A rendere la situazione ancora più preoccupante c’è anche la questione dell’inattività, che da sempre ci distingue da altri Paesi in Europa, anche da quelli che tradizionalmente non hanno mai avuto alti tassi di occupazione.
Nel mondo del lavoro italiano non si è affrontato in modo strutturale il tema della formazione, delle competenze, di quella produttività che consentirebbe posti più sicuri e più remunerati.
L’aumento dei posti degli ultimi anni è stato costruito sulla sabbia di attività a basso margine, di contratti provvisori e malpagati, e oggi il risultato è che chi sta perdendo il lavoro non sta scivolando nella disoccupazione, anch’essa in calo, ma proprio nell’inattività, in quella condizione che le statistiche faticano a inquadrare in cui non si lavora e neanche si cerca un posto, perché scoraggiati, perché senza competenze.
I dati ovviamente sono pesantemente influenzati dal lockdown, ma indicano un decollo del tasso di inattività al 38,1%, dopo avere toccato un minimo del 34% nel 2020. Parliamo di un aumento degli inattivi di un milione e 462 mila persone, e la differenza di come si è distribuito tra i lavoratori indica che non è solo un fatto congiunturale dovuto alle chiusure, per esempio, delle agenzie del lavoro, ma che c’è il riemergere di antichi problemi malamente sopiti negli ultimi anni.
Non è un caso, infatti, che gli inattivi crescano di più tra le donne che tra gli uomini, nonostante le lavoratrici siano 3,6 milioni in meno rispetto ai lavoratori. E neanche che il segmento di età in cui l’incremento annuo è maggiore sia quello tra i 25 e i 34 anni, tra cui il tasso d’inattività aumenta in un anno del 6,3%.
A causa di questo solo aumento risulta negativo, con un peggioramento delle statistiche, anche il confronto tra 2020 e 2014. Tutto il recupero di questi anni vanificato di colpo. Cosa che non accade per esempio tra i lavoratori over 50, tra cui il tasso d’inattività sale solo dell’1,6% e rispetto al 2014 risulta decisamente in calo, nonostante tutto.
l motivo è che è più facile che a essere protetto, ad avere per esempio diritto alla cassa integrazione, sia il posto di un cinquantenne che quello di un trentenne, più spesso lavoratore a termine se non free lance.
I dati ci dicono che in realtà questa disuguaglianza era già in atto prima. In questi anni tra il 2014 e il 2020 ad avere veramente ridotto l’inattività in modo netto, tanto da avere il segno più ancora nel primo trimestre 2020, nonostante l’inizio dell’emergenza, erano stati in realtà solo i laureati italiani e gli uomini stranieri poco istruiti.
Era andata male per coloro con licenza media e tra gli stranieri i laureati e in particolare le donne, forse perché dopo i tanti ricongiungimenti familiari è aumentato il numero delle casalinghe?
Questa la situazione del mondo del lavoro nel 2021, nonostante l’articolo 1 della nostra Costituzione recita che “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”
Chi ha ucciso l’articolo 1? Buon primo maggio
Attilio Gambacorta
Associazione culturale Umbrileft
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