"È solo una formalità". Così Renzi inizia lo strappo
di Daniela Preziosi
Ci è voluto poco, quasi niente, giusto il tempo di una comunicazione ed è partita ’l’operazione epurazione’, quella con cui Matteo Renzi accetta di mettere a rischio la tenuta del Pd. È iniziata ufficialmente ieri sera, si concluderà con ogni probabilità con il voto di fiducia sull’Italicum, che un gruppetto di dem non voterà, rischiando di mettersi fuori dal partito.
Ieri sera Ettore Rosato, vicecapogruppo vicario del Pd della camera e di fatto già capogruppo al posto del dimissionario Roberto Speranza, ha convocato l’ufficio di presidenza del gruppo Pd alla camera e ha tenuto un breve discorsetto. Tanto gli è bastato per sostituire d’emblée ben dieci componenti della commissione affari costituzionali di Montecitorio che già da oggi comincerà a votare l’Italicum. Incredibilmente, ma anche provocatoriamente, la faccenda è stata sbrigata come un banale espletamento di formalità.
E invece è un caso che, almeno in queste dimensioni, non ha precedenti nella storia parlamentare recente. Una figuraccia , una palese contraddizione per il Renzi che ha sempre giurato di non voler fare forzature disciplinari. Che però stavolta ha preferito di gran lunga alla possibilità che il testo dell’Italicum venisse modificato in commissione per poi dover essere ’ricorretto’ in aula attraverso qualche voto segreto. Che, raccontano i suoi, sarà un terno a lotto e comincia a fargli paura. Per questa ragione, giurano stavolta i suoi avversari interni, ormai ha deciso: sull’Italicum si abbatterà il voto di fiducia, e poco importa se il precedente parlamentare è nientemeno che la legge truffa del ’53.
Le polemiche per quest’ultimo atto di imperio non tarderanno. Ieri sera Rosato ha spiegato che si trattava ’solo’ di dare esecuzione di un mandato dell’assemblea dei deputati, quella dello scorso 15 aprile. Dove, forse un po’ prematuramente, Gianni Cuperlo aveva espresso la sua leale disponibilità ad essere sostituito in commissione in quanto ’fuori linea’: una ragionevole ’non resistenza’, la sua. Il dispositivo approvato alla fine del dibattito (la relazione del segretario, 190 sì su 310, le minoranze non hanno partecipato al voto) prevedeva la verifica dei numeri in commissione. Su 23 dem, una dozzina erano della minoranza, e sommati con le altre minoranze avrebbero fatto una maggioranza anti-renziana.
Morale: ieri l’ufficio di presidenza non ha neanche votato, ha solo preso atto che i dissenzienti non si sono dimessi spontaneamente (Alfredo D’Attorre anzi aveva annunciato battaglia) e ha provveduto a sostituirli «relativamente al voto della legge elettorale». A quelli della minoranza presenti non è rimasto che trasecolare, spiegare l’evidenza che «non si tratta di un passaggio indolore», poi incassare la sconfitta.
Fra i dieci rimossi ci sono le colonne del Pd pre-renziano: Bersani, Cuperlo, Rosy Bindi. E poi Andrea Giorgis, Enzo Lattuca, Alfredo D’Attorre, Barbara Pollastrini, Marilena Fabbri, Roberta Agostini e infine il giovane Marco Meloni, l’ultimo lettiano in parlamento. Giuseppe Lauricella, puree della minoranza, resta al suo posto: ha annunciato che si ’adeguerà’ agli ordini di scuderia. Si tratta di una sostituzione ad hoc: i dieci potranno restare in commissione finché verrà esaminato il Def. Poi, all’arrivo dell’Italicum sul tavolo, dovranno fare la cartella dove riporranno gli 11 emendamenti presentati — che così saltano — e andare fuori dalla porta, come scolari poco diligenti.
Alla riunione erano assenti Roberto Speranza, dimissionario e ormai senza alcuna speranza di rientrare nel suo ruolo, e anche Barbara Pollastrini, che fa parte dell’ufficio di presidenza ma anche della prima commissione, e quindi ha ritenuto più elegante non partecipare a una discussione che l’avrebbe riguardata personalmente. Di «strappo» aveva parlato Cuperlo a proposito della possibile fiducia. Lo «strappo» nel Pd è iniziato, è Renzi ad aver dato il via
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