È morta Olghina di Robilant, regina suo malgrado della “Dolce vita”
Elio Clero Bertoldi
PERUGIA - I giornali, enfatizzando, la etichettarono come un’orgia. Sebbene, in realtà, si fosse strattato di uno spogliarello, sia pure “osè“ per la mentalità corrente. Fu un episodio che suscitò grandissimo scandalo e l’intervento della occhiuta magistratura del tempo. Non basta: venne interpretato - fatte le debite proporzioni, quasi come lo sbarco ad Hispaniola di Cristoforo Colombo con le sue tre caravelle - quale inizio di un’epoca: la “Dolce vita”.
Nei giorni scorsi si é spenta la contessa, scrittrice e giornalista Olghina Nicolis di Robilant e di Cereaglio (Venezia 1934- Limido Comasco 2021), pochi giorni dopo il suo 87esimo compleanno, che di quella serata memorabile - poi entrata nel film di Federico Fellini, “La dolce vita”, appunto - fu il motore primo. Già perché la festa era stata organizzata per celebrare alla grande il suo venticinquesimo “dies natalis” - il giorno successivo, per precisione cronistica (5.11.1958) -, dal suo accompagnatore del momento, il miliardario statunitense Peter Howard Vanderbilt.
Ma andiamo per ordine. Olga - figlia di Carlo Nicolis di Robilant e della statunitense Carolina di Kent, era nata a Venezia nel palazzo Mocenigo (casato della nonna paterna, Valentina). A nove anni era arrivata con la famiglia a Roma (dove il padre ufficiale dell’aeronautica, partecipò attivamente alla Resistenza). Poi aveva viaggiato negli Usa ed in Portogallo, dove una sua zia - anche lei di nome Olga, marchesa di Cadaval - ospitava spesso i Savoia in esilio. Nel 1948 la contessina era stata mandata in collegio in Svizzera, a Losanna, dove aveva conseguito la maturità. Da lì approdò all’Accademia d’arte a Venezia. Trascorse un periodo a Sintra, in Portogallo, di nuovo dalla zia ed alla fine il ritorno (1956) a Roma dove aveva cominciato ad ottenere qualche particina nel mondo della celluloide ed a collaborare, come giornalista pubblicista, con vari giornali. Bella, colta, intelligente, ricca, aristocratica non le mancarono i corteggiatori (pare anche il principe Juan Carlos di Borbone, poi re di Spagna e l’attore Maurizio Arena).
Quella sera di novembre del 1958, il Vanderbilt aveva prenotato, pagandolo ovviamente, un intero ristorante - “Il Rugantino” di piazza Sidney Sonnino a Trastevere, che nell’interrato ospitava una capiente sala da ballo - ed aveva invitato, con lista preparata proprio da Olghina, il fior fiore della meglio gioventù, più o meno eccentrica, della capitale. Tra gli ospiti figuravano i Ruspoli, gli Aldobrandini, i Borghese, i Caracciolo, i Pignatelli, ed ancora le attrici Linda Christian (appena vedova di Tyron Power), Elsa Martinelli, Novella Parigini col marito principe Andrea Hercolani, Eleonora Rossi Drago, Carla del Poggio, la cantante Laura Betti, il regista Eriprando Visconti. Avrebbero dovuto essere presenti anche Fellini e la moglie, ma all’ultimo momento non potendo intervenire, avevano mandato l’attrice Anita Ekberg, 27 anni allora ed ancora sconosciuta al grande pubblico, ma già tampinata dai fotografi. Ad allietare la festa l’orchestra “Rome-New Orleans Jazz band” di Carletto Loffredo. Proprio l’attrice svedese, divenuta famosissima dopo l’uscita del film con il suo bagno nella Fontana di Trevi - nel corso della serata, aveva accennato, dopo essersi tolta le scarpe e muovendo passi di danza a mimare un accenno di “strip”. All’improvviso, al centro della scena, aveva fatto irruzione, però, la ballerina armeno-turco-libanese Aïché Nana (presente al fianco del giornalista Sergio Pastore. “Si era imbucata, non era una invitata”, ha continuato a ripetere la contessa De Robilant), che, soppiantando - lei, di altezza inferiore, anche se formosa e sinuosa - la giunonica, prosperosa ed alta svedese - già sposata con l’attore Anthony Steel - con un romanesco “Fatti più in là”, aveva guadagnato il centro della sala ed aveva iniziato uno spogliarello, professionale, coi piedi nudi sopra le giacche prontamente stese dai baldi ed eccitati rampolli, nobili e no, della Roma bene, fattisi intorno alla esotica e conturbante danzatrice. Alla fine Aïché - al secolo Kiash Nanah, appena diciottenne, ma già famosa ad Istanbul prima come promettente nuotatrice e poi quale Miss Bosforo -, toltasi il reggiseno, era rimasta soltanto con gli slip (pare che qualcuno, o qualcuna, avesse tentato di strapparle via anche quell’ultimo indumento, senza riuscirci, comunque), ballando e contorcendosi sul tappeto di eleganti giacche da sera. Uno dei fotografi (pure loro “portoghesi" e da quel momento etichettati come “paparazzi"), Tazio Secchiaroli, riuscì non solo a immortalare la piccante scena (il seno nudo risultava ancora un tabù), ma anche a salvare il rullino che la polizia aveva tentato di sequestrare a chi possedeva macchine fotografiche tra i partecipanti alla serata ad inviti e “di natura strettamente privata”, sottolineava ad ogni occasione la De Robilant. Narrano che il Secchiarelli, in vero come altri fotografi presenti, avesse consegnato agli agenti un rullino ancora immacolato e infilato, nelle tasche della giacca di un insospettabile amico, quello impressionato. La mattina seguente i quotidiani romani (e poi a catena settimanali e mensili) pubblicarono il resoconto della festa arricchito con tanto di foto dello strip-tease: venne giù il mondo. “L’orgia degli aristocratici romani”, campeggiava a caratteri cubitali, in una testata. L’audace spogliarello scatenò uno tsunami di clamore e di proteste non solo a Roma, ma in tutto il paese ed anche all'estero. Cattolici e benpensanti di casa nostra gridarono a “Sodoma e Gomorra” di biblica memoria in salsa romanesca. La magistratura, dopo una decina di giorni, avviò una inchiesta, che, in verità partorì soltanto ... topolini (un foglio di via per la ballerina dello scandalo, una multa per chi si era tolto la giacca per farne tappeto per lo strip e un invito a lasciare immediatamente l'Italia, perché indesiderato, per il miliardario Vanderbilt).
Quella notte, per la storia del costume italiota, era iniziata “La dolce vita”, anche se il film di Fellini uscì qualche mese più tardi. Pare che persino la scena “clou” della storica pellicola - il bagno di Anitona nella Fontana di Trevi - il regista l’avesse mutuata da un fatto reale: una esibizione, per una scommessa di 10.000 lire (cifra piuttosto consistente nella fine degli anni Cinquanta), fatta proprio da Olghina de Robilant. Che si fregiò, da allora, del titolo, per nulla gradito dall’interessata (“Mi ha rovinato l’esistenza”, asseriva) di “Regina della dolce vita”.
Qualche anno più tardi la contessa convolò a nozze col pittore Antonino Aglioti, da cui si separò nel 1972. Quindi le attribuirono una relazione con l’attore Memè Perlini. Continuò, comunque, ad orbitare nel mondo editoriale collaborando con L’Espresso, Paese Sera, Lo Specchio, People magazine, Esquire, Momento sera, Dagospia (dal 2001 al 2006) e scrivendo anche una dozzina di libri rosa (siglati con degli pseudonimi) e pure romanzi a propria firma (“Alvise e Alessandra”, “Nobiltà”, “Snob”) ed una autobiografia (“Sangue blu”). Lasciata Roma, la De Robilant ha vissuto un periodo in Toscana, a Bolgheri, per poi trasferirsi nel Comasco (una delle figlie vive a Milano, l’altra in Inghilterra).
La contessa, diventata suo malgrado, “regina della dolce vita”, riposa ora nel cimitero di Limido Comasco. Ultima delle tre protagoniste principali di quella notte calda (con Anita e Aïché) a lasciare la vita terrena.
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