«Non ci piegheranno»
di Francesco Piccioni
«I lavori non sono uguali; fino a 70 anni ci può stare un professore universitario, non operai o maestre»
Un’assemblea nazionale di metalmeccanici non è un pranzo di gala. Gli interventi «ingessati», qui, fanno salire un fischio alle labbra (se ne accorgerà poi Danilo Barbi, neosegretario confederale, mentre polemizza a vuoto con «chi privilegia i mezzi invece che i fini»). Specie in una sala che è quasi un capannone industriale, come questo Atlantico, alle porte di Roma.
È anche per questo che Maurizio Landini – segretario generale Fiom che deve spiegare le ragioni di uno sciopero altrettanto generale – resta molto sul concreto, come sua abitudine: «hanno cancellato le pensioni di anzianità e non va bene; un conto è fare il professore universitario, che in cattedra fino a 70 anni ci puoi anche stare, tutt’altro è stare alla catena, negli ospedali o negli asili nido». Un attacco frontale a una logica ragionieristica che cerca di far passare per «eque» misure che affondano in differenze pesanti nella vita di ognuno: «i lavori non sono tutti uguali». Punto.
I bersagli polemici sono trasparenti. Il governo dei «professori», qui, non è per nulla popolare. «Siamo contenti che non ci sia più Berlusconi, ricordo che siamo stati tra i pochi a scendere spesso in piazza per mandarlo via». Ma questo non rende ciechi e sordi: «giudichiamo i governi per quello che fanno», e questo sta devastando la coesione sociale. Basta pensare al problema degli «esodati»: oltre 70.000 lavoratori, molti in tuta blu, che sono usciti dai posti di lavoro «in base alle regole che esistevano in quel momento e come atto di solidarietà per permettere ad altri, più giovani, di continuare a lavorare»; persone oggi senza lavoro e senza pensione, a causa della «riforma» computerizzata e disumana messa in campo a dicembre da Fornero & co. Oppure all’art. 18, «che va tolto dalla trattativa con il governo». Perché «è contraddittorio dire ‘basta precarietà’ e poi abolirlo, rendendo così tutti precari».
Il tema di quest’assemblea è lo sciopero dei metalmeccanici, certo. Ma in questa situazione è difficile tracciare una separazione netta tra problemi di categoria e confederali, o politici tout court. La relazione parte dal contratto scaduto (quello del 2008, firmato anche dalla Fiom e poi disdettato da Cisl e Uil, prima che dai padroni), dalla situazione in Fiat e dalla tentazione, tra gli imprenditori, di «diffondere» il modello «autoritario» di relazioni lì inaugurato con la svolta di Pomigliano. Ma travalica di continuo i confini, assumendo i contorni potenti di una piattaforma dell’opposizione sociale e politica.
D’altro canto, gli inviti ai «movimenti» hanno portato qui centri sociali del Nordest (Luca Casarini), sindaci No Tav, segretari di altre categorie Cgil (Carla Cantone per lo Spi, Mimmo Pantaleo per scuola e università), i membri dell’area programmatica «La Cgil che vogliamo». Voci tutte un po’ fuori o ai limiti del coro, che sentono la pressione sociale salire sotto politiche piovute da Marte.
Ma se i temi di carattere generale acquistano prevalenza, non sono certo le tute blu a spaventarsene. Questo si è sempre concepito come «sindacato generale». Lo ricorda Landini en passant: «noi non siamo mai stati un sindacato solo ‘operaio’; fin dall’inizio ci siamo chiamati ‘Federazione impiegati e operai metalmeccanici’; e in Fimnmeccanica, piena di ingegneri, siamo il primo sindacato».
Fuor di cronaca. La percezione comune è di essere a un tornante della storia. Dopo 20 anni passati a «lasciar fare al mercato, che risolve tutti i problemi», siamo in una crisi da cui nessuno sa come uscire. Serve un «piano straordinario di investimenti pubblici e privati», che inquadri un «nuovo modello di svluppo». Una prospettiva che può essere persino insufficiente, ma nell’unica direzione logica. Al contrario: qui stanno strozzando «il lavoro che produce ricchezza» per «salvare la finanza che la distrugge». In questo nuovo mondo, esemplificato dal governo Monti, non esistono più questioni «solo» categoriali. «Se si defiscalizza il lavoro straordinario», per esempio, si favorisce ovunque una riduzione dell’occupazione, a scapito di quei giovani che tutti – a chiacchiere – dicono di voler difendere. Al contrario, «se si ha a cuore l’occupazione bisogna defiscalizzare la riduzione d’orario e i contratti di solidarietà».
La lista degli interventi possibili e necessari è lunga. Quel che è peggio, per chi oggi governa, è che si tratta di una lista con una coerenza interna superiore. Ma non comanda. «È finito il tempo delle pacche sulle spalle, quello in cui ci si chiama ai tavoli solo per i casi di crisi, perché siamo rappresentativi; mentre gli accordi e i contratti si fanno con chi dice sempre sì». Il paese sta rischiando il tracollo del sistema industriale, quindi «noi non stiamo scherzando».
Va rovesciato l’ordine delle «priorità». È un problema politico, oltre che sindacale. Non a caso viene posto da un «sindacalista rock» – direbbe Celentano – che chiude in una standing ovation al grido di «non ci avrete mai come volete voi». Appuntamento al 9 marzo; in piazza, a Roma. Tutti.
Fonte: Il Manifesto
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