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Li avete visti: è bastato che il vento della crisi, innestato dal crac di alcuni dei più potenti istituti finanziari Usa, avesse preso a soffiare forte, ed ecco che anche i più convinti liberisti di casa nostra, quelli che finio all'altroieri asserivano la supremazia incondizionata del mercato, si sono uniti al coro internazionale intonato per implorare l'intervento riparatore degli Stati. Si debbono a ciò i primi misurati salvataggi decisi dal governo Usa ed alla fine anche la Camera dedi deputati Usa ( il Senatolo aveva già fatto) ha approvato il piano proposto dal presidente Bush che, stanziando una somma stratosferica di dollari si ripromette di rimettere ordine in un sistema che rischia di saltare in aria, compromettendo l'intero sistema finanziario yankee. I due principali istituti di credito, Fannie Mac e Freddie Mac, che da soli sostengono i tre quarti del mercato dei mutui emericano, sono stati così nazionalizzati e questa mossa permetterà al gigante americano di continuare a sostenere un mercato che altrimenti sarebbe colato a picco, ma, soprattutto, gli permetterà di salvaguardare il collaudato meccanismo attraverso il quale l'economia Usa si fa finanziare dal resto del mondo, soprattutto dai Paesi con forti liquidità risultanti dal loor surplus commerciale: vedasi quelli dell'estremo oriente, ma non solo. Senza il loro apporto non potrebbe infatti sopravvivere un'economia che è caratterizzata su un debito delle famiglie che è enorme e che va ad unirsi a quello delle imprese e del commercio estero che è il più grande al mondo. Si pensi che dal totale di di 1.300 miliardi di dollari di obbligazioni che sono state vendute dalle due "Gses" (Government sponsored enterprises) all'estero, 376 miliardi, pari al 30% del totale, sono detenuti dalla Cina e 229 miliardi dal Giappone. L'azione del governo americano è particolarmente mirata a proteggere gli investimenti in obbligazioni, mentre ha portato pesanti perdite ai detentori di azioni ordinarie e privilegiate: secondo Standard & Poor, si tratterebbe di 5 miliardi di azioni pribilegiate detenute da banche Usa ed Ue che ora hanno il valore di "titoli spazzatura". La pecularietà dell'economia europea rispetto a quella anglosassone, ovvero il suo carattere "industriale" più che finanziario, unito ad una più dignificativa presenza pubblica, ci ha permesso finora di attutire l'impatto della crisi internazionale facendo ricorso a strumenti automatici. Ma per quanto tempo ancora? Unico aspetto positivo di questo processo, se così lo vogliamo definire, è che si potrebbe cogliere questa occasione per ridisegnare la programmazione economica a livello internazionale, o almeno europeo, a patto che d'ora in poi l'intervento pubblico agisca con un occhio al futuro per evitare gli errori del passato. Ma di questa possibilità c'è sufficiente comprensione?! Temiamo di no. A tale riguardo non ci si lasci fuorviare dalle paradossali dichiarazioni del ministro Tremonti, anch'egli convertitosi d'un tratto alle dottrine "interventiste", come pure dalle tesi dello stesso presidente del Consiglio Berlusconi, che all'incontro del G4 di Parigi ha chiesto soldi per salvare le nostre banche, come pure da quelle esposte anche ieri da Emma Marcegaglia, dato che il capo degli industriali italiani ha invocato sì più Stato, bensì a tempo determinato, ovvero quanto basta per ridare fiato alle imprese, per poi riprendere il cammino come prima, almeno fino alla prossima crisi. Da qui l'insistente richiesta di ridurre il costo del denaro, magari per tornare al 2001, quando questa possibilità concorse essenzialmente a gonfiare la bolla immobiliare generando un effetto ricchezza a vantaggio unicamente dei grandi speculatori e che non corrispose a valori economici reali. Come abbiamo poi visto, la stessa apertura dei mercati internazionali ha finito per condizionare l'operato delle economie sviluppate, agendo come strumento di pressione per abbassare i costi di produzione, mentre l'abbondante liquidità che si era venuta a creare ha "stimolato" gli intermediari finanziari e gli investitori. Ovvero, gli interventi pubblici adottati nel 2001, per rispondere alla crisi finanziaria del tempo, hanno contribuiti a determinarne un'altra ancora peggiore e di dimensioni più preoccupanti. Insistere su questo schema sarebbe perciò estremamente pericoloso, tanto più per un Paese come il nostro che, rispetto ad altri, sconta una contrazione assai accentuata del risparmio determinata essenzialmente dall'erosione selvaggia dei redditi da lavoro dipendente. Il dato recente, relativo ad uno spostamento del Pil nazionale superiore all'8% in 22 anni, a favore degli imprenditori e a danno dei dipendenti, suona come conferma di tutto ciò. Allora, intervento dello Stato sì, ma questa volta diretto soprattutto a rimettere in moto i consumi, per determinare una maggiore capacità di spesa da parte dalla grande massa dei consumatori che da troppo tempo non è più nelle condizioni di riempire come si deve il suo carrello della spesa. Condividi