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di VITO SATURNO Coordinatore del “Cantiere Umbria” Il minuto di buio dedicato Terni alla mezzanotte di Capodanno e lo spegnimento del più grande albero di Natale del mondo a Gubbio, al di là del grande gesto simbolico che certamente richiama l’attenzione del Paese, deve imporre, a mio parere, un’altra riflessione. Vogliamo fare un buon proposito per l’anno nuovo? Vogliamo buttare via, come un rottame vecchio, una odiosissima definizione, purtroppo ormai entrata nel linguaggio comune della politica, dell’economia e del sindacalismo? Cancelliamo il concetto di “mercato del lavoro”. L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro e non sul mercato del lavoro. E’ inesatto, riduttivo, fuorviante e negativo parlare e lasciare che se ne parli senza indignarsi, di “mercato del lavoro”, perché questa dicitura, che gli stessi Sindacati hanno accettato per definire la loro nobilissima sfera di azione, implica il concetto sottinteso che il lavoro possa assimilarsi a una merce. Abbiamo impiegato un secolo di impegno, di sacrifici, di lotte anche cruente, per dare dignità al lavoro, al concetto stesso di lavoro. Il lavoro, compagni e amici, non è merce. Il lavoro è professionalità, impegno, preparazione, competenza, sacrificio, dovere civile, esperienza, passione, riscatto morale, desiderio di progresso personale e collettivo, orgoglio dei traguardi raggiunti, impeto verso mete da raggiungere: tutto, fuorché merce. Averlo declassato al livello di merce, avere accettato (purtroppo anche a Sinistra, anche dai Sindacati) che fosse declassato a merce, discuterne parlando di “mercato del lavoro” e non di “mondo del lavoro”, di “valore del lavoro”, “centralità del lavoro”, rivendicando fermamente alla parola stessa “lavoro”, tutta la nobiltà che la contraddistingue dal parassitismo e tutto il malessere che separa il lavoro dalla disoccupazione, è grave. E’ grave, perché se il lavoro diventa merce, non possiamo lamentare che come merce venga trattato e che i lavoratori siano visti come numeri o pedine da muovere quando e come fa comodo. Su la schiena, compagni! Il lavoro è un valore, il mercato no. Si dice che il costo del lavoro è troppo alto, si dice che bisogna accettare il disagio della precarietà e della flessibilità, per reggere le sfide del mercato mondiale. E si torna a parlare della globalizzazione come di una arena di gladiatori dove ci si gioca la vita, armi in pugno. Il libero mercato mondiale, con le sue leggi imposte dalla sola crudele logica del profitto, porta nostre aziende a “delocalizzare” le produzioni, per esempio, in Cina, paese che notoriamente non rispetta nulla delle regole imposte qui da noi a prezzo di battaglie politiche e sindacali combattute da intere generazioni, per conquistare diritti, orari e salari decenti, condizioni decorose di sicurezza e di igiene, che hanno portato i costi dei nostri prodotti ai livelli che conosciamo. Le merci prodotte in Cina, in condizioni di lavoro assurde, senza alcuna garanzia di sicurezza per la salute e l’incolumità fisica non solo dei produttori schiavizzati, ma anche di noi acquirenti, costano molto meno e ciò è ritenuto normale per un libero mercato che si basa sulla logica, per l’appunto, del solo profitto. Precarizzare al massimo la vita lavorativa qui da noi, viene presentato come uno strumento di contrasto all’invadenza delle merci cinesi. Forse, basterebbe stabilire che l’Italia (e magari la stessa Comunità Euro-pea) non intrattenga alcun tipo di rapporto commerciale con Paesi nei quali non siano rispettate le stesse re-gole sindacali, di sicurezza e di igiene del lavoro, che vigono da noi. Altrimenti, si tratta di concorrenza slea-le, dello stesso peso e natura di quella che le aziende nostrane in cui si lavora al nero, si evade il fisco, si ignorano la sicurezza e l’igiene, concorrenza sleale messa in atto contro le aziende serie. E’ del tutto evidente che prodotti realizzati in Cina, se là fossero corrisposti gli stessi stipendi nostri, fossero rispettate tutte le norme rispettate da noi, costerebbero come i nostri e renderebbero la competizione commerciale un duello ad armi pari, non un gioco al massacro, in cui le vittime sono, come sempre, i più deboli, i nostri lavoratori che costano troppo e pretendono troppo. Vittime due volte: la prima volta come produttori destinati a produrre sempre meno e la seconda volta come consumatori, che esistono soltanto in quanto capaci di spesa, da spremere anche con l’aiuto della pubblicità, altra macchina infernale in mano agli stessi… chiamateli come vi pare. Il circolo vizioso è facilmente descrivibile, non altrettanto facilmente cancellabile: un imprenditore, stanco di dover fare i conti con i Sindacati, di dover rispettare troppe regole, di pagare stipendi a chi vorrebbe che la-vorasse per la gloria, forse anche di pagare mazzette ai politici e agli amministratori, quando non addirittura alla malavita organizzata, chiude l’attività. Licenzia i dipendenti. Vende la sede. Trasferisce le attrezzature in un paese lontano, dove nessuno si preoccupa dell’ambiente, della salute dei lavoratori e della loro incolumi-tà. Trova condizioni favorevoli: paghe da fame, schiene flessibili, silenzio complice delle autorità, nessuna presenza sindacale. Continua a produrre quello che produceva prima e continua a rifornire, con margini di profitto assai più rilevanti, la sua abituale clientela. I suoi vecchi dipendenti passano perlopiù nel numero degli indigenti; se già non lo erano, si proletarizzano, non sono più produttori e, in breve, non sono più neppure consumatori. Un imprenditore che fa una scelta del genere, non altera né il quadro economico generale, né le statistiche. Mille imprenditori che fanno la stessa scelta, assestano una ferita significativa all’economia. Diecimila im-prenditori di quel genere, creano le premesse del disastro. La stoltezza della politica economica che mortifica il mondo del lavoro, sta proprio nel fatto che, perdendo potere d’acquisto per la caduta o la scomparsa del salario, anche il produttore-consumatore cessa di esistere come ingranaggio del sistema. E non è la precarizzazione, non è la flessibilità, il rimedio: chi non ha la mini-ma certezza del domani, non spende oggi, anche se ha qualche soldo in tasca. E ci si spiega che in troppi non arrivano a fine mese; ci si spiega che i giovani non possono programmare il loro futuro, non sposarsi, non metter su casa, non avere figli; ci si spiega che i pensionati al minimo sono ormai tutti largamente al di sotto della soglia di povertà, dopo una vita di lavoro. E si mette in moto un meccanismo diabolico di contrazione che si avvita su se stessa. C’è da domandarsi, come ci domandiamo: fino a quando, gli artifici statistici e contabili, i conti truccati e le periodiche tabelle trionfalistiche, riusciranno a mascherare questa penosa realtà? Se riuscissimo a esportare diritti e desiderio di diritti, anziché antenne paraboliche e oggetti di lusso, forse la situazione del commercio internazionale e del mondo del lavoro sarebbero diversi. La stessa catena vergognosa e tragica delle morti sul lavoro, dei centomila gravi infortuni sul lavoro all’anno, delle migliaia di morti e di invalidi per malattie professionali, catena che scarica sulla collettività i costi di colpe private, si inserisce non a caso nel filone “culturale” del libero mercato e della precarizzazione del la-voro. Quanto pesano le aste al ribasso, nel conteggio delle morti nei cantieri? Quanto pesa la mancanza di preparazione professionale della manovalanza, spesso clandestina, che perde la vita per il pane? Quanto pesa l’assenza di adeguamenti tecnici delle attrezzature, la manutenzione mancata dei mezzi di lavoro e di tra-sporto? Quanto pesa l’assenza dei più elementari sistemi di protezione personale dei lavoratori? Centralità del lavoro, si diceva. Di lavoro non si deve morire. Di lavoro si deve vivere, con dignità e in sicurezza. Onestamente. E, infine, non è lavoro quello che si distribuisce con fini “assistenziali”, perché immorale, salvo che non si tratti di occupare degli invalidi consentendo loro di sostentarsi dignitosamente. Così come non è lavoro, quello che distrugge l’ambiente o attenta alla salute pubblica, perché il costo di quei salari, di quegli stipendi, di quelle parcelle (spesso spropositati e distribuiti come pagamenti di voti di scambio e comparaggi di varia natura), prima o poi lo pagano tutti. Perciò, come buon proposito per il nuovo anno: su la schiena, compagni! VITO SATURNO Coordinatore del “Cantiere Umbria” Condividi