02/02/2010 - 23:01
di
Gianluca Gracioliniz/strong>
Quello che in questi anni ci ha stupito e preoccupato di più della vicenda Merloni (ricordiamo il Piano industriale del 2005 e i lunghi periodi di cassa integrazione) e della sua attuale e drammatica crisi è la cortina fumogena che ha sempre indiscutibilmente avvolto lo stato vero delle cose. Una sorta di patto silenzioso e spontaneo tra i diversi soggetti partecipi di questa vertenza (l'impresa, il sindacato, poi il governo e le stesse regioni, molta politica) contratto per nascondere le reali difficoltà di questa azienda prima e gli eventuali percorsi di salvezza, dopo e fino ad oggi.
La storia prima o poi ne spiegherà inesorabilmente i motivi. Per ora ci atteniamo all'ombra lunga di questo antico dato di fatto che getta i suoi oscuri interrogativi anche su queste ore decisive per la vertenza, riducendone l'impatto sull'opinione pubblica e di conseguenza l'attenzione, l'impegno e la costanza di chi deve trovare una soluzione.
Di altre crisi aziendali sparse nel nostro Paese, le lavoratrici e i lavoratori, ma anche le istituzioni locali e gli stessi organi di informazione ne conoscono in dettaglio cause, processi, proposte di soluzione. E ciò ha consentito, perlomeno, gli scatti di mobilitazione operaia che non risolvono le crisi d'impresa ma neanche lasciano intentato alcunchè nè fanno spazio a rassegnazioni di sorta. Qui da noi, sulla vicenda Merloni e neanche nel momento più acuto e drammatico della crisi di questa azienda, questa cortina fumogena non consente a nessuno, in primo luogo agli operai, di conoscere in maniera adeguata e chiara lo stato dell'arte della vertenza, a meno che, di fatto, non ci sia vertenza, si dia cioè per scontata la fine di questa azienda e, per questo, non ci sia niente da dire.
Se parliamo del passato, poi, ricordiamo che ancora pochi mesi prima del commissariamento c'era chi, tra gli stessi sindacalisti e tra qualche esponente della politica, continuava a sostenere che tutto andasse bene e si tacciavano i pochi che da tempo proponevano analisi preoccupate e conseguenti allarmi, come minimo, di essere improbabili profeti di sventura, più ricorrentemente, di essere i soliti comunisti che non avevano per niente a cuore le sorti degli operai e dell'azienda ma volevano solo strumentalizzare politicamente le paure e le preoccupazioni, ancora e comunque sommesse e striscianti degli stessi.
Identica storia è un pò accaduta durante il periodo di commissariamento. I soggetti di cui sopra, una volta accertati gli esiti comunque positivi della proroga degli ammortizzatori sociali, non si sono mai sognati di richiamare adeguatamente e con puntualità il primo degli impegni formali che avevano i tre commissari e lo stesso governo: la predisposizione di un Piano industriale, cioè, che consentisse a questa azienda moribonda di tornare sul mercato. Volendo usare le stesse parole che uno dei commissari pronunciò all'indomani del primo incontro al ministero delle attività produttive, concomitante la manifestazione unitaria, si sarebbe dovuto procedere "ad una ristrutturazione complessiva dell'azienda rivoluzionandone completamente la filosofia organizzativa, produttiva e commerciale".
Questo impegno fu immediatamente dismesso perchè il governo non ha messo un euro alla base di questa missione ed è stato dismesso nel silenzio generale ed assoluto. Esso ha fatto subito posto alla ricerca di acquirenti sul mercato nel momento più critico e difficile dell'economia italiana ed internazionale e in un contesto che richiama le responsabilità di un governo senza uno straccio di politica industriale. Su questa ricerca di acquirenti: sfidiamo chiunque di conoscerne ad oggi i percorsi e gli obiettivi, le difficoltà e i tentativi reali, lo stato attuale e più vero. Solo sentito dire del tipo: "c'è stato un turco o un cinese o un padano" e via discorrendo senza puntualizzazioni nè smentite. Silenzio assoluto, al massimo dei messaggi in codice da parte di qualche sindacalista o di qualche sensale della politica a esplicitare in mezzo a sparuti crocchietti di operai impauriti ed interrogativi che c'è qualche santo, senza clamori di sorta, che tutto può e tutto sa fare e che veglia, lavora in silenzio e risolverà tutto.
Assemblee in fabbrica, manco a dirlo, ordinarie di un'ordinarietà surreale e imbarazzante e quanto basta per far dire a qualcuno ci siamo confrontati con i lavoratori. Mobilitazioni? Anch'esse ordinarie, quando non se ne poteva fare a meno e con notevole ritardo rispetto agli sviluppi reali e drammatici della vertenza. Gli interventi della politica? Ridotti al lumicino, una parvenza di mobilitazione e di interessamento e ridotti a mera vetrina a ridosso delle scadenze elettorali quando occorrerebbe dare fiato alla vertenza un giorno sì e l'altro pure. Gli interventi critici e le sollecitazioni provenienti da alcuni come il PRC? Un intralcio sopportato come fastidio estremista e come agitazione propagandistica e strumentale salvo poi preoccupare se tanto tanto c'è qualcuno che apre gli occhi e si incazza. Questo è il quadro di difficoltà e di limiti gravi che si è venuto a creare attorno a questa vicenda anche per la stessa storia sociale e l'impatto che questa azienda ha avuto nella mentalità operaia e sindacale del nostro territorio.
Di fronte alla gravità assoluta di questa crisi, oggi ci saremmo aspettati, però, uno scatto di responsabilità e anche un atto di umiltà da parte di qualche soggetto che, a vario titolo, ha avuto parte importante nella storia delle relazioni industriali e dell'organizzazione produttiva della Merloni: come Rifondazione Comunista non abbiamo mai messo in discussione la necessità di fare fronte comune, sindacale, politico e territoriale, in questa vertenza e in questi ultimi anni. Abbiamo partecipato ad ogni iniziativa delle sigle sindacali e le abbiamo, a più riprese, sollecitate così come abbiamo svolto un ruolo di interlocutori credibili allorquando ci trovavamo ad affrontare sul piano istituzionale le questioni cui ci chiamava la vicenda, anche ultimamente. Spiace constatare che quest'atto di umiltà e questo scatto di responsabilità, da parte di questi soggetti, non c'è stato non, per carità, nei confronti del PRC che continuerà in ogni caso a fare la sua parte di forza politica che vede nella crisi economica e sociale del nostro territorio e del nostro Paese la priorità assoluta ed imprescindibile, ma nei confronti degli operai.
La mobilitazione scattata spontaneamente da parte di un gruppo di questi che ha proceduto all'occupazione di uno stabile a Gaifana e ad un presidio permanente non è stato colto dalle gerarchie sindacali come un'occasione per dare la giusta dimensione ad una mobilitazione resasi necessaria dalle notizie allarmanti che giungono da Roma sui ritardi e le inadempienze del governo ma come iniziativa che rompe l'unità sindacale al ribasso cui eravamo avvezzi, come atto disperato di pochi operai disaddati, come lesa maestà, in buona sostanza.
Vogliamo a questo punto respingere con forza e definitivamente ogni tentativo messo in campo da più parti volto a dipingere l'iniziativa del Comitato di operai come una mossa strumentale di Rifondazione Comunista. Abbiamo letto bene le preoccupazioni, le ragioni e gli obiettivi di questo comitato e siamo completamente d'accordo. Gli abbiamo portato la nostra solidarietà politica come abbiamo sempre fatto in ogni manifestazione operaia e sindacale sia essa stata organizzata unitariamente sia essa stata promossa da una singola sigla, come nel caso del presidio Fiom davanti ai cancelli di Gaifana in fine estate o nel caso dell'ascesa al "Campanaccio" di Nocera Umbra. E' davvero singolare sentirsi implicitamente accusare di strumentalizzare politicamente ed elettoralmente la vertenza Merloni quando una sigla sindacale umbra di questa azienda, qualche giorno fa entrava nel merito del ciarpame per la lotta alle poltrone del PD umbro sostenendo il terzo mandato di Maria Rita Lorenzetti (non è il nostro un giudizio di valore sulla Presidente uscente ma un giudizio che attiene l'inopportunità assoluta di questa iniziativa e la sua totale inattinenza con questa vertenza).
Continuare a dipingere il Comitato degli operai come strumento del PRC non rende giustizia al merito e all'intelligenza di quelle persone che stanno lottando semplicemente per il proprio posto di lavoro, per il futuro dei loro figli, per l'economia dell'intero territorio e, dunque, per l'interesse di ogni cittadino. Una volta questa si chiamava coscienza collettiva dell'operaio e a nessun sindacalista sarebbe venuto in mente di metterla in discussione. Se ci fosse stato anche un solo operaio incatenato ai cancelli dell'azienda, noi ci saremmo stati. Continuare a sostenere capziosamente che questa iniziativa spontanea è ispirata dal PRC per ragioni politiche e, di riflesso, elettorali, è semplicemente risibile da parte di chi, proprio alla Merloni, continua a non sciogliere il nodo dell'incompatibilità tra ruoli politici e sindacali nel caso della CGIL e da parte di chi, in maniera ancora più generalizzata, continua a smorzare la necessità di una mobilitazione seria e, magari, si sbellica di applausi allorquando si prospetta come impegno locale ad affrontare questa crisi l'istituzione dello psicologo a sostegno di chi perde il posto di lavoro, nel caso della CISL. Sindacato, quest'ultimo, che porta anche la responsabilità gigantesca di portare avanti una politica di concertazione al ribasso con il governo e completamente subalterna alle imprese.
Il caso della Merloni è emblematico. Non siamo nati ieri. Sappiamo che sul piano politico e, di riflesso, elettorale sarebbe stato molto più conveniente per noi solidarizzare esclusivamente con il sindacato ufficiale, continuare a dare pacche sulle spalle degli operai ma non aggiungere altro e continuare a prendere in giro lavoratrici e lavoratori. Ad una settimana dall'incontro di Roma e dalla manifestazione unitaria che abbiamo più volte sollecitato le notizie sono che l'Accordo di programma è stato in buona sostanza congelato; che dei 50 milioni previsti come risorse del governo a base di questo ne rimangono 35; che il regime di commissariamento si avvia alla fine con un esito fallimentare e che il governo sta valutando l'ipotesi di vendere alla Società Quadrilatero, una società finanziaria, porzioni del gruppo Merloni compreso lo stabilimento di Gaifana senza alcuna ipotesi concreta di prosecuzione dell'attività produttiva e di salvaguardia dei posti di lavoro e, quello che preoccupa di più, con il beneplacito, salvo smentite, delle Regioni e con l'accondiscendenza del sindacato, sempre CISL in prima fila.
Come a dire: altro che beffa a danno dei lavoratori, qui da una crisi si prepara un altro polpettone. Affari e speculazione sulle spalle degli operai piuttosto che salvezza dell'azienda e difesa dei posti di lavoro. Cosa occorre di più per dimostrare che occorre una lotta ed una mobilitazione tenaci che facciano di questa vertenza, la principale vertenza del lavoro di almeno due Regioni italiane? Cosa occorre di più perchè il sindacato, unitariamente, possa mobilitarsi finanche convocando lo sciopero generale in Umbria e nelle Marche? Cosa occorre di più per dire no a queste pericolose fantasie e al nulla dell'ipotesi e dell'intervento del governo e rilanciare su una piattaforma di rivendicazione seria che salvi i posti di lavoro e ricostruisca le condizioni per lo sviluppo in questo territorio? Cosa occorre di più per dismettere quest'abito di timidezza della politica e del sindacato di casa nostra su questa vertenza? Cosa occorre di più per indignarsi e gridare la parolina che dà il titolo a questo intervento? La ricetta è servita, sulla Merloni. Rifondazione Comunista la chiama per nome: prima il silenzio, ora la vergogna.
Detto tutto questo per noblesse oblige, noi parteciperemo in massa alla manifestazione di lunedì prossimo per sostenere con spirito unitario la lotta per il posto di lavoro degli operai della Merloni, come abbiamo sempre fatto. Ma che non ci si venga a propinare che, nel caso di questa azienda, l'unità fondata sul silenzio sia un valore in sè. L'unità, quella vera, nasce dal confronto e non può prescindere dal tentativo di salvare ogni posto di lavoro. L'ipotesi della Quadrilatero la dice tutta: salvaguardia di pochi posti di lavoro come salvaguardia di poche e bipartizan clientele politiche e sindacali. Tutto il resto? Macelleria sociale, guerra tra poveri e si salvi chi può. Noi non ci stiamo.
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