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Barack Obama torna con urgenza a Washington (per il maltempo, spiegheranno i portavoce del leader Usa), lasciando dietro di sé un testo inconsistente, inadeguato ad affrontare il baratro futuro e, per di più, non gradito a una parte decisiva della comunità internazionale. Lavori notturni, vertici bi e trilaterali per appurare soltanto nelle mattinate che il documento finale non contiene quelle indicazioni necessarie al “cambio di rotta” auspicato in apertura dei lavori del Cop15. Con buona pace del “dream” e del “change” obamiano. Sarà, dunque, necessario riunirsi nuovamente e a breve termine, perché il finto accordo è senza numeri. Resta l'obiettivo di limitare il riscaldamento a 2 gradi (ma scompare ogni riferimento alla riduzione globale del 50% al 2050 e le buone intenzioni restano chiacchiere) e il fondo da 30 miliardi di dollari come risorse immediate (2010-2012) e da 100 miliardi di dollari l'anno entro il 2020. I punti restano 12, scompare l'obiettivo 2016 di 1,5 gradi che accontentava le piccole isole, e appare il 2015 come data utile per completare il processo e implementare l'accordo. A pagare saranno sempre i paesi sotto il Protocollo di Kyoto che dovranno aumentare la loro quota di riduzione delle emissioni. Per tutti i paesi ricchi invece, azioni individuali o collettive di riduzione al 2020. Le cifre, dicono, dovranno essere definite entro il primo febbraio 2010. Ma a questo, ormai, non ci crede più nessuno. L’accordo, inoltre, non è vincolante, come ha spiegato Obama, che ha riconosciuto che si tratta di un' intesa «non sufficiente», e si assume la responsabilità di spaccare a metà il mondo. Da una parte gli Usa, l’India, la Cina e il Sudafrica, autori del “testo”, dall’altro l’Europa che non può far altro che accodarsi, ma senza mettere becco sulle decisioni di merito, e infine i paesi ‘in via di sviluppo’ che bollano l’intesa come “vergognosa”, anti-democratica e foriera di un disastro annunciato. “Si sta facendo un colpo di stato contro la carta delle Nazioni Unite” ha infatti dichiarato la rappresentante del Venezuela nell'assemblea plenaria del vertice Onu, al momento delle ‘considerazioni’ dei paesi membri prima della votazione sul documento finale. “Un accordo - ha aggiunto la diplomatica venezuelana - non può essere imposto da un gruppo di paesi”. Dello stesso avviso anche Cuba, che rigetta decisamente e totalmente l’accordo, accusando la Conferenza di aver proceduto con metodi anti-democratici e di aver dunque prodotto un documento “non è compatibile con i criteri scientifici”. Il G77, che raccoglie i paesi cosiddetti in via di sviluppo, valuta addirittura il compromesso raggiunto nella nottata a Copenaghen come “l'accordo peggiore della storia” dei vertici Onu. “Obama vergogna!”, “giustizia per il clima, subito!”. Si affollano, intanto, davanti al Bella center della capitale danese i manifestanti che hanno seguito dall’esterno il vertice, scontando ripetutamente la violenza della polizia di Copenhagen. In mano hanno dei cartelli molto eloquenti, alcuni dei quali sono grandi volti del presidente Usa Barack Obama, con scritto sulla fronte ‘vergogna’. Altri hanno candele e altri ancora cartelli con scritto ‘clima, vergogna’. Una vergogna ancora maggiore se si pensa, come molti hanno ricordato, all'impegno, la forza e la determinazione con cui i grandi del mondo hanno risposto, soltanto pochi mesi fa, alla recente crisi finanziaria, i soldi spesi e la tempestività dei loro sforzi. E allora, la cronaca del fallimento di Copenhagen non può che essere chiusa con lo slogan più usato in questi undici giorni di Summit: “Se il clima fosse una banca, lo avrebbero già salvato”. Condividi