messico.jpg
Leonardo Caponi, militante della Sinistra da sempre, ha di recente visitato il Messico ed ha affidato i suoi ricordi e le sue impressioni a questo scritto che ospitiamo ben volentieri perché aiuta a capire anche noi le contraddizioni di un Paese grande e splendido dove si avvertono forti i condizionamenti del mercato globale che generano immense ricchezze, concentrate nelle mani di pochi, assieme ad una sterminata miseria. Per i pochi che non lo conoscessero ricordiamo che Leonardo Caponi, giornalista, è stato fra l’altro parlamentare del PdCI e presidente della Commissione Attività produttive del Senato. Attualmente milita nella Sinistra Democratica. ------- Mentre nel mercato popolare di Piedelaquesta alla periferia di Acapulco, un agglomerato di piccoli sgabuzzini sudici e fatiscenti fatti di legno deformato e lamiere arrugginite che fungono da negozi, guardo la venditrice di pesci che, con una spatola di legno e ferro, ne squama uno di quei pochi che si trovano distesi sul tavolo di legno ricoperto di fogli di giornale inzuppati d’acqua che le serve da banco vendita, mi tornano in mente le luci sfavillanti e gli arditi e lussuosi grattacieli dell’Avenida Costera Miguel Alemàn, l’arteria principale della città.. In questa contrapposizione di immagini, una ricchezza quasi ostentatamente sfacciata e una povertà, aihmè|, realmente estrema, c’è condensata la realtà del Messico e, in fin dei conti, penso, del mondo di oggi. Ospite di amici messicani, ho approfittato delle vacanze di fine-inizio anno per compiere un viaggio nel paese del centro america. Ho fatto bene a farlo. Il mercatino di Piedelaquesta è situato in una superficie di terra battuta sul ciglio di una strada ingolfata di traffico e puzzolente di gas di scarico ed è percorso, il giorno che lo vedo, da un rigagnolo di un liquido nero, oleoso e maleodorante di fogna. Dopo molti anni è il primo contatto, per così dire dal vivo, che ho con il terzo mondo. E’ un’esperienza interessante, in un certo senso pedagogica, specie per un uomo della sinistra europea che ogni giorno lo evoca. Ma sarebbe pedagogico per tutti. In questo viaggio ho trovato conferma dell’idea che ho del mondo di oggi e dell’esigenza di cambiarlo; e questo è, insieme, drammatico e “confortante”. Dopo aver visto il mercatino di Pie de La Questa o altre realtà di questo Paese anche le parole e le invocazioni che Papa Giovanni Paolo Secondo era solito dedicare alla parte indigente dell’umanità, nei suoi viaggi pastorali, si possono ripensare in una luce diversa, più “reale”. Il Messico è un grande Paese. Ha una natura stupenda; per chi l’ha vista, è una prosecuzione della morfologia dell’America del nord; grandi vallate (che sono in realtà elevati altopiani) alture e canaloni solcati da fiumi (i famosi Canyon) che, illuminati dalla luce sfolgorante del tropico, danno origine ad un trionfo di maestosità e grandezza difficilmente rintracciabile nelle terre della vecchia Europa. La popolazione è, in generale, ospitale, allegra e generosa. Non avevo “pesos” spicci e, al mercatino, la venditrice di giornali non ha esitato a farmi credito per l’acquisto di un giornale, senza avermi mai visto prima. Mi ha colpito un tassista che, a Puebla, alla fine della corsa dalla periferia al centro, ha preso il biglietto da 50 pesos che gli porgevo, l’ha baciato e si è fatto il segno della croce. Non so se tra quella gente, segnata da una storia dura e tormentata di sopraffazioni straniere e lotte intestine, ci sia una qualche inclinazione di troppo alla ubbidienza. Socialmente, devo dirlo con chiarezza, è deludente. Il Messico conta 100milioni di abitanti. Si calcola che il 40 per cento della popolazione versa in una condizione che negli indicatori internazionali è catalogata come “povertà estrema”. Il costo della vita è molto basso. Con uno stipendio medio italiano, in Messico, si potrebbe vivere bene. Cento pesos valgono 7euro. Il punto è che anche gli stipendi, per una parte grande del popolo, specie i “trabacadores”, sono bassi, 3/4mila pesos al mese. Un insegnante ne guadagna 10/15mila, un professionista affermato (avvocato, ingegnere) può arrivare a guadagnarne 20/30mila. Ritorna, come si vede, clamorosa, la forbice povertà e agiatezza. Eppure il Paese è potenzialmente ricco, La benzina costa pochissimo, grazie a pozzi petroliferi che si calcola possano durare per altri 10 anni, dopo di che si fa molto conto sulla prospettiva di nuovi giacimenti oceanici. Il Messico ha un proprio programma nucleare anche se, nel campo energetico punta, credo intelligentemente, ad una diversificazione delle fonti. Per il resto vi è presenza di altre materie prime, come metalli pregiati e un clima favorevole alle coltivazioni di frumento e, soprattutto, mais e alla produzione di una grande quantità di frutta tropicale (splendide e buonissime, nessun confronto con quelle che arrivano qui in Italia, la papaia, le banane, il mango,l’ananas ecc.). Che cos’è, dunque, che non funziona? Innanzitutto, credo, il vincolo internazionale, rappresentato da un rapporto di subalternità economica e politica con gli USA. Sebbene il debito messicano verso gli States sia stato azzerato, questi ultimi ora sono ora legati al Messico e al Canada dal NAFTA, un trattato di libero commercio, entrato in vigore per la parte agricola proprio il 1 gennaio scorso, che consente ai prodotti agricoli americani, sostenuti in patria da forti incentivi, di entrare in Messico senza pagare tasse doganali. Il primo effetto del nuovo trattato è stato l’aumento del 20per cento del prezzo dell’alimento più popolare (la tortilla, una sorta di piadina di farina di mais, buona, che si mangia con tutto specie con fagioli, formaggio e salsa piccante) che è arrivato a sfiorare i 9 pesos al kilo. La apertura di prima pagina del più importante giornale del Paese, “El Universal”, era dedicata a questo notizia che, evidentemente, costituisce un colpo non irrilevante alla condizione di molte famiglie messicane. In secondo luogo pesa una inesistente redistribuzione del reddito e una ripartizione della ricchezza a prevalente, se non totale, vantaggio di una oligarchia di grandi famiglie di latifondisti, di imprese finanziarie e industriali, di capitale straniero e a svantaggio della parte maggioritaria della popolazione. Da questo punto di vista, l’equilibrio conservatore e reazionario del potere messicano ha avuto, nel corso dell’ultimo secolo e a dispetto di significativi e generosi tentativi di rivoluzione sociale scaturiti dalle masse dei campesinos e dai loro leaders come Emiliano Zapata e Pancho Villa, una continuità impressionante. Il partito unico conservatore e liberale che ha governato per oltre 70 anni è stato sostituito, in anni recenti, da un'altra formazione politica che non ne ha mutato sostanzialmente il segno politico e il referente di classe se è vero, come è vero, che il governo del presidente Calderon si trova oggi impegnato in una politica di liberalizzazioni e privatizzazioni (dal monopolio elettrico a quello petrolifero) di cui è ben prevedibile il drammatico impatto sociale in una realtà come quella messicana. Questo equilibrio è stato per ora soltanto scosso dal candidato del fronte amplio della sinistra Felipe Obrador che nelle elezioni presidenziali del 2006 è arrivato a un passo dalla vittoria, A Cuernavaca, provincia di Morelos, roccaforte “rossa” che dette i natali a Emiliano Zapata, ho avuto la opportunità di assistere ad una manifestazione unitaria della sinistra messicana contro il governo e la sua politica. Essere di sinistra in Messico deve essere più difficile che in Italia, a giudicare dagli sguardi minacciosi di due poliziotti nei confronti dei turisti italiani che solidarizzavano con i manifestanti. Mi ha colpito il fatto che nel corteo campeggiassero le foto di Marx, Engels, Lenin e persino Stalin, evidentemente non rimossi dall’album di famiglia della sinistra messicana o accettati all’interno di essa. Città del Messico è lo specchio delle contraddizioni del Paese. Nell’area metropolitana vivono oltre 20milioni di persone (la seconda del mondo dopo Tokjo). Attraversarla e vederne le enormi periferie è impressionante. L’agglomerato nasce in un vasto altopiano circondato da colline. Molte di queste e gran parte dell’area di pianura sono invase da grigie catapecchie a un piano, quattro mura e un soffitto, immense bidonville o favelas che costituiscono, visibilmente, la maggioranza del patrimonio edilizio, nate probabilmente senza alcun piano urbanistico, dove la popolazione vive priva di servizi essenziali e in una evidente e spaventosa situazione di sovraffollamento. Eppure Città del Messico figura, nelle statistiche internazionali, come una delle città più ricche del mondo, con un PIL, il settimo in assoluto, che è inferiore soltanto ai centri occidentali più avanzati come Tokjo, New York, Londra, Parigi ecc. Di fronte alla miseria che si vede, come è distribuita e a chi appartiene questa ricchezza? L’arretratezza delle condizioni sociali è all’origine di una diffusa criminalità che induce le famiglie messicane a una vita “blindata”. I quartieri più ricchi sono recintati e presidiati da posti di blocco, guardie private, le singole abitazioni protette con recinzioni, fili spinati, fili (la cosa, lo confesso, mi ha sconvolto) elettrificati. Ma anche le abitazioni dei quartieri popolari sfoggiano un analogo, anche se forse più modesto, armamentario protettivo. Il narcotraffico è la piaga criminale più acuta. Tre morti durante la mia permanenza, in uno scontro in una località al sud del Paese tra polizia ed esercito da una parte e narcos (dotati anche di armi da guerra pesanti) dall’altra. Ho riflettuto sul fatto che, in questa situazione, non dovrebbe essere difficile arruolare, per la malavita, gente disposta e tutto. Gli italiani amano il Messico. Nel nostro immaginario collettivo (“Messico e nuvole” cantava simpaticamente Enzo Jannacci) è un paese vicino. I padri francescani furono tra i primi colonizzatori di quelle terre del “nuovo mondo”. Ancora oggi il Sacro Convento di Assisi è collegato con seminari francescani nella zona di Oaxaca e in altre zone del Paese. Anche l’istituto Montessori ha sedi laggiù. Molti connazionali ogni anno visitano il Messico. Ne tornano entusiasti. Molti, soprattutto giovani, lo hanno scelto o vorrebbero sceglierlo per abitarci stabilmente. Che cosa li attira? Il clima, le bellezze naturali, il mistero dei suoi popoli antichi e di una cultura che gli spagnoli non hanno spento del tutto, il fascino di predicatori e guaritori chiamati sciamani. Ma forse, più di tutto, per chi vive in una società come la nostra egoista e priva di certezze, c’è il richiamo di una mondo meno frenetico e competitivo, forse più solidale e con vincoli familiari e di amicizia più forti. Sono ragioni sulle quali riflettere. Certo se tra i loro poteri gli sciamani avessero anche quello di curare le ingiustizie sociali il loro Paese sarebbe ancora più attrattivo. Ma questo è un compito che spetta alla politica, penso, mentre sta rullando sulla pista di decollo l’Airbus 340 che mi riporta a casa. Condividi