di Luigi Onori, Il Manifesto
Umbria jazz, troppo «pop» e consumatori differenziati
La rassegna umbra (10-19 luglio) chiude l'edizione 2009 con la consueta serie di dati: 500 artisti, 220 concerti, 400.000 presenze complessive, 1 milione di euro incassati per 40 mila spettatori paganti, 160 tra giornalisti e fotografi accreditati, 120 mila visitatori del magazine on line di Umbria Jazz durante il festival.
Al di là delle cifre ,che dimostrano una buona tenuta del festival, si possono fare altre considerazioni. Il picco artistico dell'edizione 2009 è stato raggiunto dai sei recital dell'Aacm Great Music Ensemble (14-16) e dal piano solo di Cecil Taylor (17). Questi appuntamenti hanno visto un pubblico motivato ma al di sotto delle aspettative. Del resto su un certo tipo di ricerca sonora Umbria Jazz non ha mai investito particolarmente e si è scontata la mancanza di una mirata promozione. A fronte del jazz di maggior spessore e novità (concentrato perlopiù al teatro Morlacchi e all'oratorio S.Cecilia), c'è stata la consueta messe di concerti in piazza IV novembre e ai Giardini Carducci, con tanta musica di intrattenimento e qualche eccezione come la Perugia Jazz Orchestra diretta da Mario Raja (17); il 16 si erano esibiti i Juakali Drummers, ragazzi di strada di Nairobi (Kenya) che un progetto di Amref ha recuperato attraverso la musica. Guidati da Giovanni Lo Cascio, i giovani kenioti si sono esibiti in pubblico ed hanno partecipato ad un seminario con Horacio «El Negro» Hernadez e Giovanni Hidalgo (e su questa esperienza si tornerà). Procedendo per spazi sempre più grandi si giunge all'Arena S.Giuliana che ha ospitato recital di vario genere, da un raffinato Burt Bacharach (il 16; il suo elegante songbook giustifica da solo la presenza ad una rassegna jazz) al George Benson un po' stucchevole dell'omaggio a Nat King Cole e dell'autocelebrazione come pop-star (17); nel grande spazio sono stati, inoltre, proposti Paolo Conte, Steely Dan, Simply Red, il duo Corea / Bollani, James Taylor e B.B.King. La sensazione è che stia scomparendo quella zona grigia jazzistica che ha da sempre costituito lo zoccolo duro della rassegna, delle sue proposte e del suo pubblico: è come se l'idem sentire et velle che univa varie generazione di jazzofili si fosse spezzato e la segmentazione estrema del consumo tendesse ad una polarizzazione che da un lato accentua il carattere pop di appuntamenti che fanno cassa e sponsor e dell'altro riconnota come musica di nicchia il jazz, pur nel ventaglio di proposte stilistiche. L'allargamento impetuoso e libertario su cui Umbria Jazz nacque sembra essersi trasformato, così, in un mosaico di consumatori differenziati.
Il V recital del Great Music Ensemble (16) ha visto prima le voci di Dee Alexander, Saalik Ziyad, Taalib-Din Zyad e Ann Ward, con accenti tra spiritual e minimalismo, e poi l'orchestra che ha suonato brani di Mwata Bowden, tra funky e camerismo (pregevole un trio di trombe). Del VI recital è stato protagonista George Lewis, compositore di spessore che incarna la filosofia dell'Aacm (è autore di un volume di studi che ne ricostruisce la vicenda). Sembra che la direzione artistica di Umbria Jazz voglia puntare ancora sulla scena di Chicago e speriamo che sia così.
Cecil Taylor ha iniziato il suo concerto al Morlacchi (17) con poesie preregistrate ed il piano illuminato di rosso; poi è entrato in scena e, dopo un'ironica riverenza, si è seduto al piano per staccarsene dopo oltre un'ora. Divisa in cinque sequenze ed un bis, la musica di Taylor è scorsa come un fiume in piena ma ha perso la veemenza assoluta e l'energia travolgente del passato: ora si distinguono ampi arpeggi oltre i cluster, vi sono episodi in cui il suono di rarefa e diventa quasi impalpabile ed altri in cui (per contrasto o sviluppo) il fraseggiare conserva l'impatto fisico di sempre in una dimensione che fonde percussività e melodia. È un Taylor che manipola il tempo e struttura il proprio flusso di coscienza sonoro con un'irresistibile sapienza sciamanica.
La Brass Ecstasy del trombettista Dave Douglas ha suonato il 18 a Perugia; chi scrive l'ha seguita al Summertime Festival della romana Casa del Jazz (19). Alle spalle il Cd Spirit Moves (Green Leaf Music), il raffinato e cameristico organico vede il corno francese di Vincent Chancey, il trombone di Louis Bonilla, la tuba di di Marcus Rojas e la batteria di Nashett Waits. Nel loro repertorio brani ispirati a Fats Navarro, Lester Bowie ed Enrico Rava, una compenetrazione rara tra scrittura ed improvvisazione e la ricerca sugli ottoni portata a vertici espressivi non comuni.
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