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Caro Nicola, noto con rammarico che Liberazione, il quotidiano di Rifondazione, non offre mai approfondimenti seri su temi cruciali per la vita democratica del Paese. A tutt'oggi verifico, ad esempio, sul caso Englaro, sbandierate ideologiche isteriche e vagamente sensazionalistiche, degne della direzione di un Sansonetti. In merito vorrei segnalarti le posizioni più argomentate e perspicue del costituzionalista e Presidente emerito della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, pubblicate sulle colonne di Repubblica (segnatamente, un editoriale a propria firma e una successiva intervista rilasciata al quotidiano). Si tratta - evidentemente - di un incoraggiamento a firmare l'appello "Rompiamo il Silenzio!" lanciato da "Libertà e Giustizia". Sono consapevole del fatto che troppo spesso i pregevoli intellettuali di "Libertà e Giustizia", osservano la vita politica "dall'alto" con un'autoreferenzialità eccessiva, con poco spirito pratico e senza alcuna proposta politica su questioni quali il lavoro, l'istruzione, l'ambiente, la salute, ossia sui fondamenti di una democrazia avanzata. Ipotizzo anche che possano avere troppo "a cuore" le sorti del Partto Democratico. Tuttavia credo sia importante per Rifondazione affrontare temi di evidente complessità con strumenti più affinati di analisi. Pertanto ti chiedo - se è possibile - di pubblicare su Umbrialeft i due contributi. Buon lavoro e grazie. Paola Bianchi (Circolo PRC di Ponte San Giovanni) LE IDEE Il veleno nichilista che anima il regime di GUSTAVO ZAGREBELSKY Viviamo un momento politico-costituzionale certamente particolare. Questo non è in discussione, sia presso i fautori, sia presso i detrattori del regime attuale. Non sarà fuori luogo precisare che, in questo contesto, la parola regime vale semplicemente a dire - secondo il significato neutro per cui si parla di regime liberale, democratico, autoritario, parlamentare, presidenziale, eccetera - "modo di reggimento politico" e non ha alcun significato valutativo, come ha invece quando ci si chiede, con intenti denigratori espliciti o impliciti, se in Italia c'è "il regime". Ma che tipo di regime? Questa è la domanda davvero interessante. Alla certezza - viviamo in "un" regime che ha suoi caratteri particolari - non si accompagna però una definizione che dia risposta a quella domanda. Sfugge il carattere fondamentale, il "principio" o (secondo l'immagine di Montesquieu) il ressort, molla o energia spirituale che lo fa vivere secondo la sua essenza. Un concetto semplice, una definizione illuminante, una parola penetrante, sarebbero invece importanti per afferrarne l'intima natura e per prendere posizione. Le definizioni, per la verità, non mancano, spesso fantasiose e suggestive. Anzi sovrabbondano, a dimostrazione che, forse, nessuna arriva al nocciolo, ma tutte gli girano intorno: autocrazia; signoria moderna; egoarchia; governo padronale o aziendale; dominio mediatico; grande seduzione; regime dell'unto del Signore; populismo o unzione del popolo; videocrazia; plutocrazia, governo demoscopico. Si potrebbe andare avanti. Si noterà che queste espressioni, a parte genericità ed esagerazioni, colgono (se li colgono) aspetti parziali e, soprattutto, sono legate a caratteri e proprietà personali di chi il regime attuale ha incarnato e tuttora incarna. Ed è una visione riduttiva, come se si trattasse soltanto di un affare di persone; come se, cambiando le persone, potesse cambiare d'un tratto e del tutto la trama della politica. Invece, prassi, mentalità e costumi nuovi si sono introdotti partendo da lontano; sistemi di potere e metodi di governo sono stati istituiti. Un regime non nasce di colpo, va consolidandosi e forse andrà lontano. È un'illusione pensare che ciò che è stato ed è possa poi passare senza lasciare l'orma del suo piede. La questione che ci interroga è quella di cogliere con un concetto essenziale, comprensivo ed esplicativo di ciò che di oggettivo è venuto a stabilizzarsi e a sedimentare nella vita pubblica e che opera e opererà in noi, attorno a noi e, forse, contro di noi. Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente "berlusconismo", dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là. Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un'essenza - giusti o sbagliati che siano - si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l'essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c'è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile. A meno di credere a parole d'ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa - libertà, identità nazionale, difesa dell'Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere - il fine non si vede affatto, forse perché non c'è. O, più precisamente, il fine c'è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un'aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d'essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere. A parte forse l'autore della massima "il potere logora chi non ce l'ha", nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. "Il fine giustifica i mezzi" è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se "i mezzi giustificano i mezzi"? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della "ragione strumentale" nella politica. Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all'occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso. Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l'uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l'uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch'egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là. Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un "centro" senza contorni; si può avere un'idea, ma anche un'altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, "si è alla ricerca"; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il "politico" di successo, in questo regime, è il profittatore, è l'uomo "di circostanza" in ogni senso dell'espressione, è colui che "crede" in tutto e nel suo contrario. Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d'arresto può essere l'inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo. La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell'essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere "disturbato". L'uomo di potere, di questo tipo di potere, non vede di fronte a sé alcuna natura esterna, poiché diventa ai suoi occhi egli stesso natura (naturalmente, lo si sarà compreso, si sta parlando di "tipo ideale", cioè di un modello che, nella sua perfezione, esiste solo in teoria). Abbiamo iniziato queste considerazioni col proposito di cercare una definizione che, in una parola, condensi tutto questo.. L'abbiamo trovata? Forse sì. Non ci voleva tanto: nichilismo, inteso come trasformazione dei fatti e delle idee in nulla, scetticismo circa tutto ciò che supera l'ambito (sia esso pure un ambito smisurato) del proprio interesse. Chi conosce la storia di questo concetto sa di quale veleno, potenzialmente totalitario, esso abbia mostrato d'essere intriso. Ciò che, invece, si fa fatica a comprendere è come chi tuona tutti i giorni contro il famigerato "relativismo" non abbia nessun ritegno, addirittura, a tendergli la mano. (9 febbraio 2009) L'INTERVISTA. Parla l'ex presidente della Consulta "Dialogo sull'etica è impossibile con lo scontro tra dogmi" Zagrebelsky: "Se il potere nichilista si allea con la Chiesa del dogma" di GIUSEPPE D'AVANZO L'Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, ha definito Beppino Englaro "un boia". Credo che debba partire da qui, da un insulto atroce, il colloquio con Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale. Beppino Englaro, "un boia"?" In un caso controverso dove sono in gioco dati della vita così legati alla tragicità della condizione umana è fuori luogo usare un linguaggio violento, così impietoso, così incontrollato, così ingiusto. Non ho ascoltato, sul versante opposto, che vi sia chi ragiona dell'esistenza di un "partito della crudeltà" opposto a "un partito della pietà". Credo che in vicende così dolorose debbano trovare espressione parole più adeguate e controllate, più cristiane". E tuttavia, presidente, i toni accusatori, le accuse così aggressive e definitive sembrano indicare che cosa è in gioco o a contrasto nel caso di Eluana Englaro. I valori contro i principi, la verità contro il dubbio. Questioni da sempre aperte nelle riflessioni dei dotti che avevano trovato, per così dire, una sistemazione condivisa nella Costituzione italiana. Che cosa è accaduto? Perché quell'equilibrio viene oggi messo di nuovo in discussione dopo appena sessant'anni? "Le posizioni in tema di etica possono essere prese in due modi. In nome della verità e del dogma, con regole generali e astratte; oppure in nome della carità e della com-passione, con atteggiamenti e comportamenti concreti. Nella Chiesa cattolica, ovviamente, ci sono entrambe queste posizioni. Nelle piccole cerchie, prevale la carità; nelle grandi, la verità. Quando le prime comunità cristiane erano costituite da esseri umani in rapporto gli uni con gli altri, la carità del Cristo informava i loro rapporti. La "verità" cristiana non è una dottrina, una filosofia, una ideologia. Lo è diventata dopo. Gesù di Nazareth dice: io sono la verità. La verità non è il dogma, è un atteggiamento vitale. Quando la Chiesa è diventata una grande organizzazione, un'organizzazione "cattolica" che governa esseri umani senza entrare in contatto con loro, con la loro particolare, individuale esperienza umana, ha avuto la necessità di parlare in generale e in astratto. È diventata, - cosa in origine del tutto impensabile - una istituzione giuridica che, per far valere la sua "verità", ha bisogno di autorità e l'autorità si esercita in leggi: leggi che possono entrare in conflitto con quelle che si dà la società.. Chi pensa e crede diversamente, può solo piegarsi o opporsi. Un terreno d'incontro non esiste. ". Che ne sarà allora dell'invito del capo dello Stato a una "riflessione comune" ora che il parlamento affronterà la discussione sulle legge di "fine vita"? " Una legge comune è possibile solo se si abbandonano i dogmi, se si affrontano i problemi non brandendo quella verità che consente a qualcuno di parlare di "omicidio" e "boia", ma in una prospettiva di carità. La carità è una virtù umana, che trascende di gran lunga le divisioni delle ideologie e dei credi religiosi o filosofici. La carità non ha bisogno né di potere, né di dogmi, né di condanne, ma si nutre di libertà e responsabilità. Dico la stessa cosa in altro modo: un approdo comune sarà possibile soltanto se prevarrà l'amore cristiano contro la verità cattolica". Lo ritiene possibile? "Giovanni Botero nella sua Della Ragione di Stato del 1589 scriveva, a proposito dei Modi di propagandar la religione: "Tra tutte le leggi, non ve n'è alcuna più favorevole a' Prencipi, che la Christiana: perché questa sottomette loro, non solamente i corpi e le facoltà de'sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora e i pensieri". Botero era uomo della controriforma. Purtroppo, c'è chi pensa ancora così, tra i nostri moderni "prencipi". Essi potrebbero far loro il motto di un discepolo di Botero che scriveva: "questa è la ragion di stato, fratel mio, obbedire alla Chiesa cattolica". Ora, se l'obbedienza alla Chiesa cattolica è la ragion di stato, è chiaro che i laici non troveranno mai un approdo comune con costoro. Dobbiamo allora credere che il conflitto di oggi tra mondo laico e mondo cattolico, che ha accompagnato il calvario di Eluana, segnali soprattutto la fine della riflessione del Concilio Vaticano II e, per quel che ci riguarda, la crisi di quella "disposizione costituzionale" che è consistita, per lo Stato, nel principio di laicità contenuto nella Costituzione, e per la Chiesa nella distinzione tra religione e politica? "Il Concilio Vaticano II ha rovesciato la tradizione della Chiesa come potere alleato dello Stato, ha voluto liberarla da questo legame tutt'altro che evangelico. Non si propose di proteggere o conservare i suoi privilegi, ancorché legittimamente ricevuti, e invitò i cattolici a un impegno responsabile nella società, uomini con gli altri uomini, con la fiducia riposta nel libero esercizio delle virtù cristiane e nell'incontro con gli "uomini di buona volontà", senza distinzione di fedi. Fu "religione delle persone" e non surrogato di una religione civile. Il cattolicesimo-religione civile sembra invece, oggi, essere assai gradito per i vantaggi immediati che possono derivare sia agli uomini di Chiesa che a quelli di Stato". Ieri mentre finiva l'esistenza di Eluana Englaro e il Paese era scosso dalle emozioni, dalla pietà e, sì, anche da una rabbia cieca, dieci milioni di italiani hanno voluto vedere il Grande Fratello. E' difficile non osservare che l'artefice della macchina spettacolare televisiva del reality e di ogni altra fantasmagorica vacuità - capace di distruggere ogni identità reale, alienare il linguaggio, espropriarci di ciò che ci è comune, di separare gli uomini da se stessi e da ciò che li unisce - è lo stesso leader politico che pretende di dire e agire in nome dell'Umanità, della Vita, addirittura della Verità e della Parola di Dio. Le appare più tragico o grottesco, questo paradosso? Come spiegarsi la dissoluzione di ogni senso critico dinanzi a questo falso indiscutibile? "Non è questo il solo paradosso. Non è la sola contraddizione che si può cogliere in questa vicenda. Il mondo cattolico enfatizza spesso il valore della dimensione comunitaria della vita, soprattutto nella famiglia. E' la convinzione che induce la Chiesa a invocare a gran voce la cosiddetta sussidiarietà: lo Stato intervenga soltanto quando non esistono strutture sociali che possono svolgere beneficamente la loro funzione. Mi chiedo perché, quando la responsabilità, la presenza calda e diretta della famiglia, nelle tragiche circostanze vissute dalla famiglia Englaro, dovrebbero ricevere il più grande riconoscimento, la Chiesa - con una contraddizione patente - chiude alla famiglia e invoca l'intervento dello Stato; alla com-passione di chi è direttamente coinvolto in quella tragedia, preferisce i diktat della legge, dei tribunali, dei carabinieri. Sia chiaro: lo Stato deve vigilare contro gli abusi - proprio per evitare il rischio espresso dal presidente del consiglio con l'espressione, in concreto priva di compassione, "togliersi un fastidio" - ma osservo come la legge che la Chiesa chiede assorbe nella dimensione statale tutte le decisioni etiche coinvolte: questo è il contrario della sussidiarietà e assomiglia molto allo Stato etico, allo Stato totalitario". Lei è il primo firmatario di un appello che ha per titolo Rompiamo il silenzio. Vi si legge che "la democrazia è in bilico". Le chiedo: può una democrazia fragile, in bilico appunto, reggere l'urto coordinato di un potere politico invasivo e senza contrappesi e di un potere religioso che agita come una spada la verità? "Oggi la politica è succuba della Chiesa, ma domani potrebbe accadere l'opposto. Se la politica è diventata - come mi pare - mezzo al solo fine del potere, potere per il potere, attenzione per la Chiesa! Essa, la Chiesa del dogma e della verità, può essere un alleato di un potere che oggi ha bisogno, strumentalmente, di legittimazione morale. Il compromesso convince i due poteri a cooperare. Ma domani? Il potere dell'uno, rafforzato e soddisfatto, potrebbe fare a meno dell'altra. ". Qual è l'obiettivo del suo appello? "'Rompiamo il silenziò è già stato sottoscritto da centosessantamila cittadini. È la dimostrazione che, per fortuna, la nostra società non è un corpo informe, conserva capacità di reazione. L'appello ha tre ragioni. E' uno sfogo liberatorio, innanzitutto: devo dire a qualcuno che non sono d'accordo. E' poi un autorappresentarsi non come singoli, ma come comunità di persone. Il terzo obiettivo è rendersi consapevoli, voler guardare le cose non in dettagli separati, è un volersi raffigurare un quadro. A volte abbiamo la tendenza a evitare di guardare le cose nel loro insieme. E' quasi un istinto di sopravvivenza distogliere lo sguardo dalla disgrazia che ci può capitare. L'appello prende posizione. Si accontenta di questo. Se mi chiede come e dove diventerà concreta questa presa di coscienza, le rispondo che ognuno ha i suoi spazi, il lavoro, la scuola, il partito, il voto. Faccia quel che deve, quel che crede debba essere fatto per sconfiggere la rassegnazione". (11 febbraio 2009) Condividi