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Il ruolo fondamentale che viene affidato al nuovo contratto nazionale sottoscritto da Cisl, Uil e Ugl e non dalla Cgil, è di fatto quello di contenere gli aumenti retributivi al di sotto dell'inflazione, il che vuol dire in pratica programmare una ulteriore e sistematica riduzione del salario, ovvero decurtare uleriormente il suo potere d'acquisto dopo che, grazie alla cancellazione a suo tempo decretata della "scala mobile", la capacità di spesa dei lavoratori italiani, un tempo fra le più alte in Europa, è caduta ai livelli più bassi. Si tratta, quindi, di un atto di autentica rottura che è il risultato di un processo di trasformazione in incubazione da tempo che sta cambiendo la natura stessa di una parte del sindacato che si presta a svolgre la sua funzione all'interno di un perimetro che viene tracciato dalla politica e dalle possibilità unilateralmente dichiarate dalle imprese. Ma, obietteranno i sostenitori di questa brillante operazione, ciò che così si perde in questa prima fase verrà compensato dal secondo livello della contrattazione, quella che seguirà nelle singole aziende. Mentono e sanno bene di mentire poiché non ingorano certo che questa prassi è riservata unicamente alle imprese maggiori e ad essa è in pratica interessata non più del 15% della manodopera italiana. L'85% resta quindi escluso da questa operazione di recupero, per questi prestatori d'opera nulla si aggiungerà ciò che verrà dato loro contrattualmente e per loro l'impoverimento è certo. E il solo pensare, tanto per dirne una, che si possa incentivare la contrattazione sulla detassazione del salario aziendale nelle mini imprese, laddove il sindacato neppure esiste, è cosa fuori da qualsiasi logica e sarebbe cosa ancora più pazzesca se qualche sindacalista contasse sulla buona volontà di datori di lavoro disposti a procedere motu proprio in questo senso. Resta, perciò, come vera e propria contrattazione decentrata, ed è questa che l'accordo sul nuovo contratto autorizza, solo quella che prevede il salario interamente variabile e strettamente vincolato a indici di redditività aziendale che sono difficilmente controllabili da parte del sindacato. Salario, dunque, strettamente agganciato alla redditività e bando definitivo degli aumenti salariali stabili, la qual cosa ci suona più o meno così: per vedere qualche cosa in più nelle loro buste paga i lavoratori italiani dovranno lavorare qualche ora in più ogni giorno, più intensamente di quanto già facciano oggi e godendo di meno diritti. Il che equivale consegnarsi mano e piedi ai datori di lavoro. Ma anche questo non è sembrato sufficiente perché alle aziende in crisi sarà possibile derogare (in tutto o in parte) dall'applicazione del contratto nazionale e per farlo basterà loro ottenere il consenso dei sindacati che hanno firmato l'intesa, anche se, magari, in quelle aziende non sono neppure rappresentati, purché - si dice nell'accordo - siano competenti per territorio. Per di più, come prova generale di una misura che, prima o poi, ci proporranno di allargare all'intero mondo del lavoro, per il pubblico impiego c'è l'aggravante (palesemente incostituzionale) di una norma che limita il loro diritto di sciopero. Come? Lasciando questa prerogativa ai soli sindacati che, senza aver ricevuto nessun mandato specifico in questo senso, anche coalizzati fra loro dimostrino di rappresentare nominalmente la maggioranza dei lavoratori medesimi. Un "pacco", questo, che si vuol confezionare negando ai lavoratori ogni possibilità di esprimersi ed escludendo la Cgil, il maggiore sindacato italiano. Un atto di protervia che difficilmente può essere digerito e per respingere il quale Fiom e Funzione pubblica Cgil hanno proclamato lo scioperò del 13 febbraio prossimo. Condividi