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Il budget e la conoscenza di Patrizia Proietti (resp. prc regionale università) Il decreto Gelmini sull’università è legge. Ma è vero che l’intento della ministra è quello di ridurre gli sprechi, di rendere più trasparenti i concorsi e di valorizzare gli studenti più meritevoli? Partiamo innanzitutto da alcuni dati (fonti: Eurostat, Ocse, Miur). La spesa pubblica italiana per l’istruzione universitaria è pari all’1,6% della spesa pubblica totale, contro il 2,8% della media europea.; la spesa pubblica italiana in ricerca e sviluppo arriva all’1,1% del Pil, contro una media europea del 2% (con l’obiettivo previsto dalla Carta di Lisbona del 3%). Mentre dal 1990 al 2005 gli altri Paesi europei aumentavano gli investimenti complessivi in ricerca e sviluppo di percentuali che vanno dal 21% della Francia al 117% della Spagna, l’Italia li ha fatti lievitare soltanto del 4% al netto dell’inflazione. Inoltre, il rapporto tra docenti e studenti in Italia è di 1:29, in Gran Bretagna è di 1:16, in Germania è di 1:12, in Spagna è di 1:11 (la media europea è di 1:16,4). Infine, l’Italia può contare su un organico di circa 62.000 ricercatori, mentre in base alla media europea dovrebbe averne almeno 117.000. Per non parlare dell’età media dei ricercatori: 55 anni per l’Italia, al massimo 43 per il resto d’Europa. Ora, limitando l’analisi a questi semplici dati, si può dire che ciò di cui hanno bisogno le università italiane non sono certo tagli o provvedimenti atti a depauperarle, quanto invece un aumento di risorse finanziarie e umane. Oltre alle difficoltà che molte università si troveranno ad affrontare e alle speranze deluse di una moltitudine di giovani ricercatori che agognavano un’assunzione, le misure adottate attraverso questa legge hanno delle conseguenze che vanno ben al di là della realizzazione di risparmi o di pseudo sanzioni disciplinari. E questi effetti non tarderanno a farsi sentire anche sull’Università degli studi di Perugia, che subirà, stando a quanto pubblicato su La Nazione, un taglio pari a 30 milioni di euro. Gli interventi previsti promuovono una trasformazione complessiva del sistema universitario pubblico nell’ottica dell’aziendalizzazione, che si spinge fino alla possibilità, prevista nella finanziaria, di trasformare le università pubbliche in fondazioni private. Non ci vuole molta fantasia per immaginare cosa può comportare in termini di pari opportunità per gli studenti e per la libertà della ricerca e della didattica. La distinzione tra atenei virtuosi e no rispecchia questa visione; essa si basa essenzialmente su indicatori di bilancio e su sistemi di valutazione della qualità che prescindono da una reale stima del valore scientifico della produzione universitaria. Forse tutto ha origine nell’interpretazione erronea del dettato costituzionale che ha ispirato i processi di riforma universitaria a partire dagli anni Ottanta. L’autonomia di cui parla l’articolo 33 della Costituzione è stata tradotta e ridotta a semplice autonomia finanziaria e a mero diritto all’autogoverno delle singole sedi universitarie. A voler ben vedere, quell’autonomia deve essere intesa, invece, come condizione necessaria per garantire una forma di indipendenza della scienza e dell’arte dai condizionamenti di natura diversa da quelli prettamente culturali, in particolare da quelli politici ed economici. Contro questa concezione imprenditoriale dei luoghi e delle attività di educazione e di produzione della conoscenza, in cui conta sempre e solo la quantità (di soldi, di ore, di corsi...), il PRC invita a mantenere alto il livello di mobilitazione, perché il diritto allo studio, sancito dalla Costituzione, è imprescindibile per raggiungere “il pieno sviluppo della persona umana”. Condividi