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di Isabella Rossi Ora che la crisi economica si sta materializzando in tutta la sua gravità con i dati Istat che attestano il calo di produzione italiano al -6,7 % rispetto all’ottobre 2007, le peggiori ricadute si attendono sul lavoro precario che in Italia è principalmente donna. E quando a rischio sono i posti di lavoro di migliaia di donne, parlare di “conciliazione” può sembrare quasi un vezzo retorico oltre che un modo per riconfermare che lavoro retribuito e lavoro di cura gratuito in Italia continuano a dover essere preoccupazione squisitamente femminile, piuttosto che la priorità politica di un paese che in Europa si distingue per l’alta disoccupazione femminile e la bassa natalità. Con “Tempo permettendo… Conciliazione fra vecchi e nuovi paradigmi” il Centro per le Pari Opportunità della Regione Umbria rimette la questione della conciliazione al centro del dibattito, facendone derivare come prima conseguenza proprio la massiccia assenza delle donne dal mercato del lavoro italiano. Daniela Albanesi, presidente del Centro Pari Opportunità della Regione Umbria, giovedì scorso, in apertura del ciclo d’incontri che si terranno su questo importante tema, ha sottolineato che lo squilibrio generato dalla non equa distribuzione del lavoro di cura “è l’ostacolo più grande per l’accesso delle donne al mondo del lavoro.” Le principali conseguenze della mancata gestione, a livello politico, delle problematiche relative al lavoro di cura sono così riassumibili: impoverimento dei redditi femminili, impoverimento dei redditi familiari, bassa fecondità italiana. Non tanto tematiche di genere, dunque, quanto temi d’interesse generale, e quale interesse. E’ indubbio che la conciliazione lavoro famiglia diventa un peso, sia per le donne che per gli uomini quando è l’azienda ad opporsi alla flessibilità dei turni di lavoro. Per Marina Piazza, sociologa ed ex Presidente della Commissione Nazionale Parità, il mantenimento di un modello lavorativo, nato 100 anni fa con il fordismo, non è una necessità economica, bensì “una volontà politica”. E “una società che non contempla il lavoro di cura è una società totalitaria”. Per riformare questo anacronistico modello lavorativo si dovrebbe agire su più fronti, prevedere maggiori sanzioni per l’inosservanza della legge 53 del 2000, migliorare la retribuzione dei congedi parentali che solo in Italia si aggirano ad un misero 30%, e ampliare il congedo di paternità, al momento riconosciuto solo in determinati casi. In Francia proprio le politiche attente alla famiglia hanno migliorato il tasso di natalità e riscosso successi imprevisti: il 75% dei padri under 35 si è avvalso del congedo parentale . In Italia occorrerebbe, tuttavia, anche combattere gli stereotipi attraverso campagne mediatiche. Alcune iniziative hanno raccolto consensi, ha illustrato la sociologa, slogan come “Sei un padre o uno scaricabarile”, o vignette sul tema sono riuscite a trasmettere una maggior coscienza del problema. Ma si tratta di azioni circoscritte a progetti regionali. Un sondaggio effettuato tra bambini delle elementari aveva dato esiti emblematici: alla visione di una fotografia che ritraeva una donna in camice bianco, la totalità dei maschietti ha spiegato che si trattava di una cuoca, mentre per le femmine era una dottoressa. Sono ben il 17% le donne in Italia costrette ad abbandonare il lavoro con la nascita del primo figlio . La maternità in Italia è, troppo spesso, causa d’impoverimento e di perdita del lavoro. Il grave ritardo culturale dell’Italia si trasforma così in un mancato sviluppo economico che si ripercuote duramente sui tassi di natalità. Ed è palese che questa logica è in netto contrasto con l’universalismo dei diritti. Per poter attuare cambiamenti seri occorre ora più che mai una volontà politica, che l’Italia sinora non ha dimostrato di avere. Che la crisi riesca in qualche modo a rimescolare le carte in gioco, facendo di necessità virtù, è una speranza nutrita da molti. Una cosa, tuttavia, pare certa: nessun cambiamento potrà avvenire senza una più decisa partecipazione femminile alla politica. Condividi