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di Daniele Bovi La guerra dell’Alberto furioso dentro il Pd umbro prende le mosse da lontano. Ma senza andare troppo indietro nel tempo, un buon punto di partenza lo si può individuare nel marzo scorso. Il governo Prodi è collassato impietosamente da poco tempo, il nuovo corso di Veltroni è appena agli inizi. Di lì ad un mese si torna alle urne: va in scena lo psicodramma delle liste. E il Pd umbro non sfugge a questo copione. All’Alberto viene assegnato il quinto posto in lista. Tradotto: Stramaccioni sarebbe stato l’unico deputato ex Ds a forte rischio di non essere rieletto. Così l’Alberto si sfila: “non mi ricandido”. E qui arrivano le prime cannonate contro il partito. “Non mi ricandido per dignità politica e personale”, spiega, parlando di un “Pd umbro umiliato con candidature nazionali e romano-umbre”. Le stesse logiche che avevano portato l’illustre sconosciuta Maria Pia Bruscolotti al vertice del partito, altro vero psicodramma dell’allora neonato Pd. Di quei giorni i vertici diessini ricordano scene ormai mitologiche. Zitti e a capo chino, accettano quello che viene deciso da Roma. La margheritina Bruscolotti al vertice del partito. Praticamente un’onta. Quegli stessi vertici umbri del partito che, parole dell’Alberto, “hanno impedito la mia candidatura non considerandomi dalemiano in modo autentico”. Fu lo stesso Stramaccioni a spiegare che la vicecapogruppo dell'Ulivo alla Camera, Marina Sereni, e la presidente della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti, “si sono opposte” al suo ritorno in Parlamento. Per Stramaccioni, “chi non ha santi in paradiso non viene candidato: questo sarebbe il nuovo modo di fare politica, ed ormai c'è una componente romana del Pd umbro che ha sottratto ruolo al partito stesso in Umbria. Ma il sottoscritto non intende operare in politica facendo riferimento a capi o capetti che ti possono far avere coperture o protezioni politiche. Io conosco D'Alema e Veltroni da 30 anni, dal 1992 al 2001 sono stato segretario regionale umbro prima del Pds e poi dei Ds, e con loro ha avuto conflitti anche aspri, ma non mi sono legato al carro né dell'uno né dell'altro”. Il riferimento a Walter Verini, potente Lothar di Veltroni, era innegabile. Si arriva poi alla fine di settembre, intervista al Giornale dell’Umbria. Anche qui palle incatenate contro Bruscolotti & co. La cosa più carina che l’Alberto dice di loro è che sono “delegittimati” dalla incompatibilità di ruoli e funzioni, dalla caccia alla candidatura per le prossime elezioni. Poi arrivava la denuncia delle “logiche autoreferenziali che restringono e non allargano l’area della partecipazione”, che “connotano sia le candidature sia le decisioni politico-amministrative”. Stramaccioni poi ricordava le sberle prese dal centrosinistra in due realtà importanti come Deruta e Todi, dove “in molti casi non è stato il centrodestra a vincere, ma il centrosinistra, diviso e conflittuale, a perdere”. Decisa fu anche l’indicazione di rinnovare i vertici umbri del Pd, così come quella di chiedere ai molti esponenti di quell’area che ormai da decenni amministrano esclusivamente le istituzioni, un atto di responsabilità. Cedere il passo alle nuove generazioni era la parola d’ordine. Nuove leve che dovrebbero svincolarsi da “tutele e padrinaggi politici” per infondere linfa nuova ai programmi politici del Pd in autonomia. In un primo tempo di questa corsa alla segreteria infatti, era spuntato fuori anche il nome di Stefano Fancelli, detto Barack Fancelli. Il candidato under 40, sostenuto dal tandem Bruscolotti-Boccali, che doveva prendere il posto di Piero Mignini in una logica di rinnovamento generazionale. Poi Barack Fancelli è stato ritirato dalla corsa. Il resto è storia di oggi. Quando ai margini dell’assemblea ha detto che “fino ad oggi è stato perso tempo prezioso. Mi sono candidato per fare del Pd un partito realmente nuovo”. Condividi