di Maria Pellegrini.

In una epigrafe risalente al II secolo a. C. si esaltano le virtù di una donna di nome Claudia, dall’aspetto piacevole ma anche dotata delle classiche virtù che si attribuiscono a una matrona degna di ammirazione. Tali doti sono ben rappresentate nelle parole che la defunta, il cui corpo è conservato nel sepolcro, rivolge al passante pregandolo di leggere quale sia stato il suo percorso sulla terra:

Straniero, ciò che dico è poco, fermati e leggi tutto.

Questa è la tomba non bella di una bella donna.

I genitori la chiamarono Claudia.

Amò suo marito con tutto il suo cuore.

Ebbe due figli, dei quali uno

lei lascia sulla terra, l'altro ha deposto sotto terra.

Fu amabile nel parlare, misurata nel portamento.

Custodì la casa, filò la lana. Ho finito. Va'. (CIL I 1211)

Come si legge nell’epigrafe la vita di Claudia è stata quella di madre premurosa, di sposa fedele e innamorata del suo uomo secondo il tradizionale modello della matrona ideale che risale alle origini della repubblica romana, quello di una donna dal comportamento integerrimo, dedita esclusivamente all’ambito domestico cioè alla gestione della casa e all’educazione dei figli. Anche il portamento e il modo di vestire doveva essere quello di una “femina pudica”. Del resto la donna romana era vissuta per secoli dentro una famiglia di stampo patriarcale in una rigida distinzione di ruoli. La partecipazione politica era riservata agli uomini, alla donna invece era destinata la sfera domestica riassunta nelle due frasi “domum servavit, lanam fecit”, custodì la casa, filò la lana. L’immagine della figura femminile intenta a filare e tessere all’interno delle mura domestiche diventerà un topos letterario nel mondo romano.

Nelle fonti letterarie, non solo antiche ma anche di età repubblicana e imperiale, nonostante il progresso della condizione femminile, persiste con rimpianto l’ideale di donna dalle antiche virtù, la donna “domiseda”, cioè quella che restava a casa. Tacito, lo storico romano del I sec. d. C., nel “Dialogus de oratoribus” ricorda con rammarico la severa disciplina degli antenati riguardo l’educazione dei figli. Per una madre era «principale titolo di merito custodire la casa e prendersi cura della famiglia». «Con quell’aria di rispetto e quasi di sacralità che la circondava, ella teneva sotto controllo non soltanto gli studi e le diverse attività dei ragazzi, ma anche i giochi e i momenti di svago». Lo scrittore porta come esempio Cornelia, la madre dei Gracchi, che aveva dedicato la sua vita, anche dopo la morte del marito, all’educazione di Tiberio, Gaio e Sempronia, i tre figli superstiti dei dodici che aveva generato mentre trova riprovevole l’abitudine dei suoi tempi quando i figli erano affidati a «qualche servetta greca o a uno schiavo qualsiasi, inadatto a qualunque seria mansione». Anche in Plutarco (I sec. d. C.) autore noto per la sua opera “Vite parallele”, leggiamo questo elogio: «Cornelia allevò i suoi figli con tanta saggezza che la loro virtù fu stimata frutto dell’educazione ricevuta più che dono di natura».

Stupisce anche che tre secoli dopo, il poeta Ausonio scriva un epitaffio per ricordare una giovanissima sposa la cui vita si era spenta quando aveva soltanto sedici anni, ma in così breve tempo aveva compiuto tutto ciò che è importante per una donna: sposarsi e procreare:

Tutto ciò che si desidera nel corso di una lunga vita

Anicia lo ha compiuto prima del sedicesimo anno.

Appenata nata ha preso il latte da sua madre

poi è cresciuta e giovinetta si è sposata,

ha partorito, ma divenuta madre è morta.

Ritratti di donne ideali sono anche quelle che si sono mostrate fedeli al proprio marito e non abbiano contratto un secondo matrimonio.

Valerio Massimo, storico del I sec. d. C., nella sua opera “Detti e fatti memorabili” ce ne dà testimonianza quando scrive: «Le donne che si erano contentate di un solo matrimonio venivano onorate con l’aureolato titolo di pudiche: giacché stimavano che l’esperienza di chi contraesse più di un matrimonio fosse indizio di sregolatezza». A esempio di fedeltà coniugale, tra altre, ricorda Antonia, sposa di Druso Germanico «donna che superò in lodi la fama raggiunta dagli uomini della sua famiglia, ricambiò l’amore dello sposo con singolare fedeltà: dopo la morte del marito, ancora nel fiore della giovinezza e della bellezza, visse senza contrarre nuovo matrimonio».

Alla donna romana dell’antichità non erano riconosciuti diritti, doveva essere sottoposta alla tutela di un uomo, prima il padre poi il marito; alle sole Vestali era riconosciuta una certa indipendenza, come si legge in una legge delle XII Tavole: «Le femmine, sebbene di età adulta, devono essere sotto tutela, eccetto le vergini Vestali».

Le donne, di qualsiasi ceto sociale, non potevano decidere di loro stesse, dei loro beni, dei loro figli; motivo di tale provvedimento era la loro ignoranza della legge, l’inferiorità naturale rispetto all’uomo, la leggerezza d’animo; quindi era impossibile che una donna potesse prendere la parola in pubblico per difendere sé stessa o qualcun altro. Anche Cicerone nell’orazione “Pro Murena” ricorda che «le donne devono rimanere sotto la tutela del marito».

Per giustificare che le donne non potessero assumere un ruolo attivo in contesti pubblici ritorna spesso il motivo della “verecundia” e del “pudor” che le rappresentanti del sesso femminile dovevano sempre tener presenti. Anche il silenzio, sia nel mondo greco che in quello romano, era un tratto distintivo di ogni “femina honesta”; si pensi al notissimo passo della tragedia “Aiace” del greco Sofocle (V sec. a.C.): «il silenzio è un ornamento delle donne».

Lo stesso Valerio Massimo, prima citato, all’inizio del capitolo nel quale tratta delle “Donne che difesero se stesse o altre persone alla presenza dei tribunali” mostra una certa avversione per le matrone «che, dimentiche della loro femminilità e del pudore dovuto ai loro costumi, intervenivano nel Foro e nei tribunali». Nei tre esempi di donne che ebbero il coraggio di presentarsi davanti ai giudici e svolgere il ruolo di avvocate di se stesse, o di altri accusati, ebbe parole di disapprovazione.

Tuttavia a proposito della norma del diritto di “postulare pro aliis” cioè difendere personalmente gli altrui interessi davanti al pretore, ancora nel terzo secolo d. C. un giurista, Ulpiano, scrive quali persone secondo l’editto del pretore non possano farlo. Tra questi compaiono le donne alle quali si richiedono riservatezza e “pudicitia”.

Non dobbiamo dimenticare che il già citato Plutarco, nella vita del secondo re di Roma, Numa Pompilio, ricorda che egli venerava con particolare rispetto una Musa “che sapeva tacere”. Secondo lo scrittore a lui risalirebbe anche il divieto per le donne di parlare in assenza del marito.

Nel pantheon delle divinità romane esisteva una dea chiamata “Tacita Muta”. La sua storia è narrata da Ovidio: prima di diventare una divinità era una naide chiamata Lara. Fu punita da Giove a divenire muta per non aver tenuto a freno la lingua, infatti aveva messo in guardia un’altra naiade Giuturna sui piani del re degli dei che, preso da insana passione, voleva tenderle un agguato per possederla, e aveva inoltre informato la gelosa Giunone dell’amore adulterino del marito. Giuturna, gettandosi nelle acque del fiume, riuscì a fuggire dagli assalti amorosi di Giove ma incorse nella vendetta del dio che dopo averla raggiunta le aveva strappato la lingua confinandola nel regno dei morti. Il mito di Tacita Muta voleva tramandare la storia di una donna incauta, leggera e irriflessiva, che aveva fatto cattivo uso della parola.

“Mulier taceat in Ecclesia” con queste parole anche Paolo di Tarso, vissuto nella prima metà del I sec. d. C., prima avversario del Cristianesimo, poi dopo la conversione divenuto apostolo della nuova religione, in una lettera ai Corinzi, proibiva alla donna di parlare nelle riunioni della comunità.

Se alla matrona romana durante la vita era imposto il silenzio, al momento della morte avveniva un rovesciamento di consuetudini. Durante i funerali era pronunciato un discorso in lode della morta, una “laudatio funebris”. Questa usanza tutta romana di dare visibilità alla donna ricordando le sue virtù in occasione del suo funerale era apprezza da Plutarco: «Ottimo sembra il costume dei Romani di rendere pubblicamente gli elogi appropriati anche alle donne, come agli uomini, dopo la loro morte».

La “laudatio funebris” femminile divenne una pratica diffusa nel mondo romano durante la repubblica poi nell’ impero, quando destinatarie privilegiate dell’orazione funebre furono le donne delle famiglie importanti.

Svetonio e Plutarco ricordano l’orazione funebre pronunciata da Cesare in onore della zia Giulia, moglie di Mario, e quella in onore della moglie Cornelia.

Cassio Dione ricorda l’elogio della figlia di Cesare, Giulia, sposa di Pompeo, senza nominare chi fosse l’oratore.

Svetonio narra che Ottaviano all’età di 12 anni pronunciò un elogio funebre in occasione della morte della nonna Giulia.

Le lodi sulle epigrafi nei monumenti o nelle stele funerarie ricordano invece anche donne di ceto modesto, ricordate per le loro virtù e la dedizione alla famiglia.

È già stato fatto un passo avanti, quello di lodare le donne almeno dopo morte, per lo storico greco Tucidide del V sec. a. C. «della donna si deve parlare il meno possibile, sia per biasimarla che per lodarla».

Potremmo dire con Anna Maria Ortese: «Tutta la storia della vita delle donne è piena di silenzi».

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